Banche: lontane dal Roe del 2007; cercano la strada per la crescita (Mi.Fi.)
14 Agosto 2017 - 08:22AM
MF Dow Jones (Italiano)
C'era un vecchio mondo in cui le banche italiane avevano un roe
(return on equity, indice che misura la redditività del capitale)
al 13%, impieghi in crescita annua del 10% e sofferenze sotto il 2%
dei crediti. Era l'estate del 2007 e, mentre Northern Rock iniziava
a vacillare, quasi nulla in Piazza Affari lasciava presagire lo
tsunami in arrivo. I sussulti di Wall Street non preoccupavano i
banchieri nostrani, concentrati nell'ultimo giro di valzer di
aggregazioni e nell'acquisto di carissimi sportelli dai
concorrenti.
Solo nell'aprile di quell'anno Carige, scrive Milano Finanza,
aveva pagato a Intesa 12,7 milioni a filiale, mentre il Credito
Valtellinese aveva messo sul piatto 11,2 milioni, più della metà
dei profitti che avrebbe registrato nel primo semestre 2016. Ma il
vecchio mondo era davvero un altro mondo. Un mondo in cui, per
citare ancora Genova, Carige poteva vantare un roe al 10,3% e un
cost/income al 53,2%, numeri che forse giustificavano i multipli
pagati nelle operazioni di m&a. Ecco perché nell'autunno del
2007 i 9 miliardi sborsati da Mps per Antonveneta stupirono ma non
tanto, visto che dopo tutto Siena faceva ancora 1 miliardo di utili
all'anno. E del resto quelle strategie non nascevano solo da
ambizioni personali. La spinta al consolidamento veniva
direttamente dai vertici dell'istituzioni; basti pensare che il
premier Romano Prodi (di cui è nota la vicinanza al dominus di
Banca Intesa Giovanni Bazoli) e il governatore Mario Draghi nei
mesi precedenti avevano tenuto a battesimo le fusioni tra Intesa e
il Sanpaolo Imi e tra Unicredit e Capitalia. L'argomento favorito
dalla politica era la difesa del mercato interno contro il
possibile ingresso di un concorrente estero; una chiamata alle armi
che non suonava certamente sgradita ai banchieri. Ma non sfuggiva
ai più che, in un mercato maturo come quello italiano, comprare (e
all'occorrenza strapagare) era l'unico modo per conquistare quote
di mercato, visto che non c'era verso di erodere quelle altrui. Un
argomentazione ineccepibile, anche se oggi sembra lontana anni
luce.
Sebbene gli amministratori delegati non perdessero occasione per
osannare la qualità dei propri attivi (con particolare attenzione
agli abs e ai cdo detenuti in portafoglio), già a fine 2007
l'aumento del costo del funding e le svalutazioni iniziarono a
compromettere i risultati economici, penalizzando il grado di
patrimonializzazione. Il declino fu questione di un paio d'anni,
giusto il tempo perché il roe di Intesa piombasse dal 19 al 5% e il
price/book value di Unicredit da 1,3 a 0,47. «Era finita
l'illusione che potesse esserci liquidità a buon mercato per
tutti», commenta oggi l'economista Andrea Resti. «Persino negli
anni più recenti, con politiche monetarie estremamente espansive,
il mercato non ha dimenticato la lezione del 2007-2008 e continua a
essere selettivo nel decidere quali banche possono ricevere credito
a breve termine e nell'applicare premi al rischio fortemente
differenziati». Come prima conseguenza i vincoli di bilancio e le
incertezze sistemiche spinsero gli istituti italiani a stringere i
cordoni della borsa: la contrazione del credito, iniziata nel 2007,
si accentuò progressivamente negli anni successivi in tutti i
settori, colpendo soprattutto il manifatturiero e le costruzioni.
La stretta relazione tra banche e aziende aggravò insomma
l'avvitamento dell'economia reale, sfociato in due forti recessioni
nell'arco di un quinquennio. E dalla crisi economica al
deterioramento degli attivi bancari il passo fu davvero breve. «Se
guardo agli ultimi anni, le note dolenti sono il Texas Ratio (il
rapporto tra sofferenze e patrimonio tangibile, ndr) e il rapporto
tra margine d'interesse e svalutazioni su crediti (cioè tra i
ricavi generati dall'intermediazione finanziaria e le perdite
causate dalla stessa, ndr)», spiega Resti. La risposta della
politica alla crisi bancaria fu inizialmente incerta, a
dimostrazione di una conoscenza approssimativa del problema e delle
possibili soluzioni. Dopo una garanzia statale sui depositi al
dettaglio, nel 2009 il governo Berlusconi varò i Tremonti bond,
obbligazioni computabili nel patrimonio Core Tier 1 e sottoscritte
dal Tesoro all'allettante cedola del 7,5%: un affare per le casse
pubbliche, un sollievo passeggero per le banche coinvolte. Non ci
furono invece nazionalizzazioni o bad bank alla spagnola, una linea
testardamente ribadita dal premier Mario Monti proprio mentre nelle
Procure e sui giornali affioravano i primi scandali. A partire da
quello Montepaschi .
La banca di Siena, per anni presidio nel mondo finanziario del
potere dalemiano riassume meglio di ogni altra le patologie
italiane: più dei 9 miliardi versati al Santander per Antonveneta,
Rocca Salimbeni ha pagato gli effetti di una governance inadeguata
e di un processo del credito fallace che in pochi anni sono costati
oltre 16 miliardi ad azionisti e contribuenti. Anche perché, senza
nulla togliere al facile appeal mediatico del derivato scoperto in
cassaforte, non c'è dubbio che i 28 miliardi di non performing
loans accumulati sui libri del Monte siano figli di inefficienze
diffuse su tutta la catena decisionale, dalle filiali al cda. Né la
determinazione di Fabrizio Viola né due aumenti di capitale per 8
miliardi né il tentativo in extremis di Marco Morelli hanno evitato
a Siena l'epilogo rimandato per anni, cioè la nazionalizzazione. Un
epilogo che fa il paio con la liquidazione ordinata di Popolare
Vicenza e Veneto Banca, messe in sicurezza da Intesa Sanpaolo dopo
una scivolosa trattativa con Roma e Bruxelles. Ma quella di Siena è
stata anche la crisi di un modello relazionale fatto di
campanilismo, clientelismo e personalismo; un modello che, dopo
aver prosperato per decenni in un circolo apparentemente virtuoso
tra imprese e partiti, si è rivelato del tutto inadatto a gestire
il salto nella modernità. La stessa situazione si è riproposta in
molte banche cooperative, dove l'autoreferenzialità della
governance e la necessità di oliare periodicamente la macchina del
consenso hanno compromesso in maniera irreversibile i fondamentali
economici.
red/cce
(END) Dow Jones Newswires
August 14, 2017 02:07 ET (06:07 GMT)
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