Spigolature

- Modificato il 01/12/2017 10:47
lella6 N° messaggi: 1519 - Iscritto da: 01/2/2010

e di tutto un po'.

gocce di saggezza, briciole di buone letture,

poesia e musica indimenticabile e chi più ne ha più ne metta.

Buona giornata!





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541 di 996 - Modificato il 20/1/2018 16:27
lella6 N° messaggi: 1519 - Iscritto da: 01/2/2010
3)
segue....

Salvatore Natoli. STARE AL MONDO. Escursione nel tempo presente.
introduzione al libro di Roberto Diodato

Sto in realtà un po’ forzando il pensiero di Natoli, che non si pone esplicitamente queste domande così rozze e brutali, e persegue una strategia più sottile, tesa a evitare di affidare la solidarietà alla dinamica gratuita del dono. Natoli cerca di configurare lo “spazio incerto della solidarietà” più in quello circoscrivibile della giustizia che in quello incontrollabile della carità: “Non a caso Tommaso d’Aquino – scrive Natoli – collega la parola iustitia al termine iustari, nel senso di rendere conveniente, congruo. La giustizia aggiusta le disparità, rende pertinenti le situazioni, è un’operazione di armonizzazione da cui scaturisce un intero organico. Tutti sono tenuti a praticare la giustizia. E la solidarietà, in quanto situazione che include il fattore altruistico come condizione per la realizzazione del benessere individuale, è sostanzialmente un modo per esercitare la giustizia. E’ a questo titolo che noi la troviamo nell’articolo 2 della Costituzione, dove, essendo una realtà giuridica, non è più un dono ma una strategia della società: “La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo sia come singolo sia nelle formazioni sociali … e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale”. La solidarietà – prosegue Natoli – è alla base del patto sociale di cittadinanza: è un vincolo, non è un dono. Implica che i cittadini, in base al patto sociale, nella loro vita ordinaria, nel frutto del loro lavoro e così via, assumano esplicitamente la responsabilità della condizione altrui come elemento per relizzare la società giusta”.
Ma, restando al livello delle domande rozze, si potrebbe obiettare: non è forse utopistica questa “pretesa” di solidarietà, o di inglobamento della solidarietà nella sfera della giustizia? Più profondamente: in che senso propriamente si “sottoscrive” un “patto di cittadinanza”? Quale è il senso del “vincolo” costituzionale? Il dettato costituzionale sulla solidarietà non è forse continuamente negato dalla prassi politica e dalle dinamiche sociali? cosa sono in realtà le Costituzioni? ideali regolativi elaborati da alcune anime belle? (come la Carta dei diritti delle Nazioni Unite, che nulla può nei confronti dei veri poteri – un esempio recente di un certo interesse: la rapidità con la quale è stata annullata la Commissione di controllo sulla strage di Jenin); servono a qualcosa o sono degli alibi?
Ovviamente la strategia di Natoli è raffinata e punta, come dicevo, all’esplorazione delle condizioni genetiche del tempo presente in funzione di un’educazione complessiva del sé che permetta di coltivare la solidarietà come valore sociale e politico. Tale esplorazione si dispiega nel libro in modo ricco e articolato, attraversando le domande fondamentali e pressanti sul senso della tecnica e sul rapporto sapere-potere a questa collegato. A tale proposito Natoli mette bene in luce come oggi si stia passando dalla “età della tecnica” alla “età del rischio” connesso all’autosviluppo incontrollabile della tecnica, problema etico-politico di straordinaria importanza e di difficile gestione: La tecnica, nell’epoca del rischio – scrive Natoli – ha in qualche modo a che fare con la fine: per un verso, infatti, la realizza, per l’altro la indica. L’epoca del rischio realizza in qualche modo una fine nel senso che archivia la tecnica come epoca: qualla della tecnica è ormai un’epoca compiuta, qualcosa di storicamente acquisito, di irreversibile… La tecnica può solo avanzare, nessuno la può fermare”, e si pensi soltanto, se questo è vero, a come sia difficile pensare il problema del limite, per esempio del limite etico, della tecnica. Eppure, sostiene Natoli, una certa forma del limite, almeno del limite come problema, è intrinseco allo stesso divenire (non al “progresso”, e nemmeno allo “sviluppo”, ma al “divenire” della tecnica); scrive Natoli: “Quel che però la tecnica non può fare è abolire il limite: lo può spostare all’infinito, ma non lo può annullare… A prova di questo basta considerare come le conquiste della tecnica nel momento stesso in cui ampliano le opportunità creino immediatamente dilemmi. I nuovi ritrovati o le soluzioni trovate si trasformano subito in nuovi problemi… E quanto più potenti sono le scoperte, tanto più ampi gli effetti; e quanto più ampi gli effetti, tanto più complesse e in taluni casi drammatiche le decisioni”. Pensare questi limiti della tecnica può consentirci, dice Natoli, di sfatare il mito progressista della tecnica, l’ultimo mito moderno ancora attivo; ma non è decisa con ciò la direzione verso cui tale demitizzazione può condurci: forse ci porterà verso un nuovo immaginario ipertecnologico con tratti apocalittici o paradisiaci, forse finiremo incantati dalla rete incatenati in mondi virtuali. Ancora una volta è essenziale, allora, il richiamo alla cura di sé, alla gestione accurata e sapiente di quel limite che noi, innanzi tutto, siamo. Si tratta di un percorso fondalmente etico: “c’è etica – scrive Natoli – soltanto se c’è amministrazione della propria finitezza”.

Continua.....
542 di 996 - 20/1/2018 16:43
lella6 N° messaggi: 1519 - Iscritto da: 01/2/2010

4)
Segue….
Salvatore Natoli. Stare al mondo. Escursione nel tempo presente.
introduzione di Roberto Diodato

Perciò Natoli approfondisce, nei successivi capitoli, il tema della cura di sé, e in particolare della cura di sé intesa come l’aiuto di sé attraverso gli altri nei confronti dell’esperienza del disagio (del disagio mentale, ma anche del disagio scolastico), della malattia, del danno e infine del dolore, del dolore devastante che spezza le relazioni, che isola, che mette alla prova la solidità delle relazioni affettive e sociali, e infine della morte: “Il senso – scrive Natoli – non è qualcosa che il soggetto produce da sé. Noi quando cominciamo a parlare, apprendiamo un linguaggio: apprendiamo a vivere e così pure a morire. Come nascendo non abbiamo inventato una lingua, ma siamo entrati in un discorso che già correva, così abbiamo appreso a morire dalla e nella morte degli altri. Prima di essere un attacco all’individuo la morte è contrassegno della specie. La morte la incontriamo per la prima volta negli altri che muoiono, e in ciò si lacera il senso… e dal momento che l’uomo è collocato in un orizzonte di senso, cerca di ritesserlo oltre la lacerazione del dolore”, eppure “l’esperienza del dolore risiede proprio in questo: nella circolarità tra danno e senso. Il dolore non ha, e probabilmente non avrà mai, una ragione che lo giustifichi. Diventa però occasione per darsele, le ragioni, e per cercarle. Intanto si cammina insieme, fino a che la strada conduce. Bisogna saper stare sulla linea, bisogna portarsi all’altezza della propria morte. Gli antichi lo sapevano: apprendere a morire fa parte del ben vivere. Certo rubando al tempo – e fino in fondo – le sue gioie”.
A questo punto Natoli non poteva non concludere il suo libro che con un discorso sapienziale, con un tentativo di parlare il linguaggio arduo della sapienza; e compie tale tentativo mantenendosi a stretto contatto con i grandi testi sapienziali della tradizione greca ed ebraico-cristiana. Lo scopo è resistere alla tentazione del nichilismo, non lasciarsi sconfiggere dalla disperazione: anzi lo scopo è di trovare le forze e le vie per uscire da un’epoca, come la nostra, che è per numerosi aspetti proprio un’epoca di nichilismo compiuto, epoca della definitiva secolarizzazione, epoca della morte di Dio anche nella forma insidiosa, dice acutamente Natoli, della “normalizzazione del cristianesimo”. Al proposito, a mio avviso opportunamente, Natoli scrive: I cristiani non dovrebbero attenuare l’incredibile del credere, quello che nella loro fede è scandaloso – e il rischio che la sottende – per renderla più persuasiva e convincente presso quelli che la ignorano o poco la considerano. Sono invece dell’idea che un cristianesimo meno conformista potrebbe rivelarsi più attraente perfino per gli stessi non credenti o almeno per alcuni di essi: potrebbe lasciar loro intuire la serietà e l’etrema drammaticità del credere”.
Dunque di fronte a quella totale deprivazione del senso della vita che talvolta diventa negazione volontaria della propria vita (Albert Camus, in Il mito di Sisifo, esprime bene questo sentimento: “Morire volontariamente significa aver riconosciuto, anche solo istintivamente, il carattere insignificante di tale abitudine, l’assenza di qualunque ragione importante di vivere, il carattere insensato di questa agitazione quotidiana e l’inutilità della sofferenza”) si muove la “sapienza” di Natoli. Sapienza che, pur basata sul terreno della classicità, prende i tratti quasi di un’interpretazione profana del cristianesimo: scrive Natoli: “La crudeltà è ineliminabile dalla natura e contrassegno di questo è la morte. Ma la pietas, come contromovimento rispetto alla crudeltà dell’esistenza, si determina come reciprocità e condivisione: siamo figli della stessa madre. In questo quadro perfino il cristianesimo è suscettibile di un’interpretazione profana. Basta prendere sul serio fino in fondo il significato dell’incarnazione. “Nascere da donna” vuol dire essere destinati alla morte. Gesù nasce da donna e perciò non può che morire. Certo per i credenti il crocifisso è anche risorto e non solo: è la “primizia” dei risorti e perciò promessa di immortalità. Ma per chi non crede Gesù è un uomo che ha amato la vita, l’ha goduta, che avrebbe preferito non morire e tuttavia non si sottrae alla morte; soprattutto non si vendica con chi l’uccide e sa essere compagno di chi muore: oggi sarai con me in paradiso. E si tratta – credo – di un paradiso in nulla diverso dalla terra, ma solo di una terra redenta dall’amore, dove ogni uomo prende su di sé il peso dell’altro in reciproca gratitudine. E questo permette a ogni uomo di fronteggiare la sua morte, d’esserne all’altezza”.
Ma in realtà queste sono parole con le quali Natoli conclude il penultimo capitolo del suo libro, quello dedicato alla secolarizzazione. Dopo di queste inizia il capitolo sulla “sapienza”, un capitolo molto intenso che mette a confronto il grande sapere greco, il sapere ironico di Socrate e il sapere tragico di Eschilo, col grande sapere ebraico di Giobbe e di Qohelet. Il punto forse più delicato del discorso di Natoli riguarda adesso il concetto di Eternità, interpretata da Natoli non come un alterità trascendente rispetto alle dimensioni del tempo, bensì come “un’istanza di totalità, un’esigenza di completezza” posta nel nostro intimo, che tuttavia è destinata a rimanere irrealizzare e a provocare una tensione produttiva di ricerca di senso: “L’eternità – scrive Natoli – che Dio ha posto nel cuore dell’uomo gli impedisce di affermare e di negare in assoluto: è però una sapienza che gli consente di operare, che lo rende capace di muoversi nell’incertezza, di trovare vie d’uscita nella difficoltà, di tentare persino l’impossibile”.

FINE
545 di 996 - 20/1/2018 18:46
quasi40 N° messaggi: 1287 - Iscritto da: 25/8/2016
OK. Osservazioni per nulla banali che si intrinsecano tra di loro, possiamo tranquillamente farle nostre senza nulla togliere alla validità di entrambi gli espositori dei propri concetti. Uno in particolare mi colpisce, potrei dire da sempre, che trovo espresso dal duca-conte ( non è nuovo in assoluto ): il vero Dio. E quì non la finiremmo più. Senza dilungarmi troppo sull ' argomento qualcuno mi dovrebbe spiegare qual ' é il vero Dio: il nostro, quello degli ebrei o quello dei mussulmani piuttosto che Shiva Brama e Visnù al posto di Confucio o quello dei seguaci di Zoroastro per finire con il Manitou dei pellerossa ? Non ci sono dunque infedeli ( tranne noi cristiani per i mussulmani ),quindi ogni religione serve il vero Dio, che si riduce ad essere il proprio, di fatto lasciando inalterato, o quasi, il numero di religioni che esistono dall ' origine dell ' uomo. Ultima, fortissima religione che accomuna sotto un unico dio l ' essere umano, è quella del denaro, piaccia o non piaccia. E nel denaro non c ' é nobiltà...eppure, di esso, l ' uomo ne ha fatto un dio.
547 di 996 - 20/1/2018 20:21
quasi40 N° messaggi: 1287 - Iscritto da: 25/8/2016
Chi è nato in Micronesia di certo non la vede così : il me, tra virgolette, è valido per ogni abitante del globo, ognuno con il proprio credo. Sono dell ' idea che non se ne venga a capo, forse fra qualche milione di anni, sempre che la terra ci sia ancora. Appuntamento ad allora.
549 di 996 - 20/1/2018 23:58
quasi40 N° messaggi: 1287 - Iscritto da: 25/8/2016
@ Risposta molto garbata, come si conviene tra persone civili. Nell ' ordine: per quanto riguarda il nick, ormai ci sono affezionato, non sono facile ai cambiamenti, farmi chiamare Mister mi parrebbe piuttosto pretenzioso. Se leggi gli altri 3D avrai notato che mi appellano in diversi modi: non cambia niente, io sono e resterò quasi 40, se Mister 40 ti piace di più liberissima di scriverlo. Altrettanto libera di " volere " credere, ci mancherebbe essere obbligati a credere, verrebbe del tutto meno l ' applicazione del libero arbitrio, di cui tanto si parla. In questo campo non muovo critiche a nessuno e se le muovo riguardano esclusivamente gli uomini come tali poiché prima di essere religiosi sono uomini, quindi perfettibili, peccatori come tutti gli esseri umani, soggetti alle opinioni altrui come tutti gli esseri umani. Alla stessa stregua dei politici i quali mi pare anche tu li metta sotto i tacchi, non vai a votare come non ci vado io e questo è un elemento che ci accomuna: per quanto riguarda l ' altro una non condivisione non significa contrarietà. Non elevo la scienza a risolutrice dei misteri della terra e del cosmo, domande troppo grandi per accettare risposte che l ' uomo non è in grado di fornire, nessun uomo. Non è semplice entrare nel mondo del trascendentale, ciò che mi turba è l ' uso che l ' uomo fa di questo argomento comportandosi in modo diverso da quanto va invece predicando. Per saperne di più sul mio pensiero dovrei descriverti la mia vita, le cose, e non sono poche, attraverso cui sono passato e che mi hanno modificato, non tanto però da stravolgere la mia natura; sarebbe troppo arduo, e troppo intimo, condensare in poche righe il corso di una vita...verrebbe meno anche quel tanto di mistero che in un forum non guasta. Per concludere: non sono quell ' ateo che posso apparire ( l ' importante é che io lo sappia ), l ' etá non mi pesa, il cuore lo sento giovane, o comunque non vecchio, mi piace la vita e ne ho i motivi...ed ora vado a nanna. Contraccambio le cordialità, Jessica, buona notte.
550 di 996 - Modificato il 21/1/2018 00:58
lella6 N° messaggi: 1519 - Iscritto da: 01/2/2010
"DIRITTI" NON "ELEMOSINE"

Salvatore Natoli


Il lessico recente della politica, specie d'ispirazione conservatrice, ha messo in circolo una formula ormai corrente: capitalismo compassionevole. Adam Smith, che di sentimenti se ne intendeva, aveva colto con grande finezza il carattere ambiguo della compassione, aveva mostrato come l'egoismo fosse una componente - o comunque un aspetto collaterale - del comune e pur autentico sentimento di pietà. La compassione, infatti, trae origine da "un immaginario scambio di posto con chi soffre"1 e tale che "noi arriviamo a concepire ciò che egli prova, o a esserne colpiti".2 A seguire, Smith così esemplifica: "Persone di fibra delicata e di debole costituzione lamentano che nel veder le ferite e le piaghe mostrate dai mendicanti per le strade tendono a sentire un prurito o una sensazione di fastidio nella corrispondente parte del proprio corpo. L'orrore che concepiscono davanti alla miseria di quei disgraziati colpisce quella zona particolare del corpo in loro più che in ogni altro, poiché tale orrore deriva dal concepire ciò che essi stessi patirebbero se realmente fossero i disgraziati sui quali stanno posando il loro sguardo".3 In diverso modo e in altro contesto questo capita anche ai cosiddetti forti. Quando, a partire dal Settecento, le strade e le piazze delle città furono ripulite dai mendicanti ciò accadde per motivi di pulizia-polizia, ma anche perché i buoni cittadini non fossero turbati nel loro benessere da visioni nauseanti. L'internamento della miseria era un modo adeguato per nasconderla senza affrettarsi ad eliminarla. Se non la si vede, infatti, non c'è. E se poi ci si muoveva incontro a essa lo si faceva prevalentemente nella forma delle beneficenza e della carità. Ora non v'è dubbio che all'origine della compassione vi è un reale sentimento di pietà, una predisposizione naturale a farsi carico della condizione degli altri, ma sarebbe certamente ipocrita tacere del fatto che nel compiangere l'altro spesso compiangiamo noi stessi, ci identifichiamo con una condizione che ci potrebbe toccare. A partire da qui, nel tempo si è venuta formando l'idea - più che mai razionale - che fosse opportuno predisporre anticipatamente un'assistenza generalizzata, concepita come bene sociale, come un vantaggio per tutti.
L'aiuto, come atto privato di generosità, era troppo debole quale garanzia collettiva. Su questa base è maturata sempre di più la convinzione che è scomodo essere ricchi in mezzo alla miseria poiché il degrado collettivo mette costantemente a rischio il benessere individuale, privandolo della tranquillità necessaria per fruirne davvero.
La beneficenza si è mostrata storicamente inadeguata per la soluzione dei problemi del bisogno. Tali problemi risultano al contrario meglio risolvibili se affrontati in termini di giustizia. A suo tempo, Smith aveva elaborato una chiara distinzione tra la beneficenza e la giustizia: "la beneficenza - scriveva - è sempre libera, non può essere estorta con la forza: la sua mera assenza non espone ad alcuna punizione, perché la mera assenza di beneficenza non tende verso alcun male reale e positivo".4 Nel dire questo, Smith ha perfettamente ragione: la beneficenza è cosa buona se viene fatta, ma non arreca danno alcuno se non viene fatta. E non è neppure un obbligo. In ciò differisce chiaramente dalla giustizia "la cui osservanza non viene lasciata alla nostra libera volontà, che può essere estorta con la forza e la cui violazione espone al risentimento e di conseguenza alla punizione".5 La giustizia a differenza della beneficenza è dunque obbligatoria e chi trasgredisce le leggi di giustizia è suscettibile di punizione. Smith rivela qui un'idea di giustizia fortemente sanzionatoria e in ciò risente della concezione del diritto dell'epoca. Non è certo questa la sede per affrontare una tale questione; quello che, però, è importante notare è il fatto che la giustizia se per un verso è obbligante, per l'altro dà a chiunque sia titolare di un diritto la possibilità di esigerlo, di rivendicarlo. L'assistenza, una volta concepita come dispensazione di prestazioni favorevoli all'implementazione del pubblico benessere, viene a formularsi in termini di diritto e perciò può essere esigita e contrattata pubblicamente come bene collettivo.
Nei suoi scritti Foucault ha ampiamente mostrato come il potere, da potere di sanzione o "diritto di morte", si sia nel tempo trasformato in potere "di" e "sulla" vita. In quanto potere sulla
vita riveste un valore ambiguo: può essere un potere invasivo e perciò limitativo delle libertà dei soggetti, rivelandosi così distorto e velatamente o allusivamente coercitivo; per altro verso il potere sulla vita può essere concepito come gestione della vita stessa, vale a dire come un potere socialmente distribuito. Un potere diffuso di governo, che pone i diversi soggetti nelle condizioni di pretendere d'essere collocati allo standard medio di vita delle società d'appartenenza e comunque mai al di sotto di esso. Di qui la legittimità di rivendicare nei confronti dello stato e delle amministrazioni un benessere sociale garantito, specie in tutti quei casi - e non sono pochi - in cui gli individui non sono nelle condizioni di assicurarselo con il solo reddito da lavoro.
La più grande invenzione politica del Novecento, il welfare, ha perseguito esattamente questo. È plausibile sostenere che una politica economica di questo tipo oggi non è più possibile o quanto meno è necessario introdurre correttivi strutturali per poterla ancora praticare; quel che, però, resta in ogni caso in piedi è la "filosofia politica" da cui il welfare ha tratto ispirazione e che a tutt'oggi lo motiva: i diritti sociali sono esigibili da tutti e non è pensabile che certi servizi siano limitati a un privato e meno che mai che siano discrezionali.
Una democrazia è effettivamente tale solo se tende a includere progressivamente gli esclusi o comunque coloro che non sono sufficientemente tutelati. Una concezione di questo tipo - che ha caratterizzato da sempre la sinistra, ma anche il cattolicesimo sociale e la borghesia avanzata - è orientata a guardare il mondo dal punto di vista degli esclusi e perciò prende a inizio del proprio operare i punti bassi della società. Questo punto di vista oggi viene sempre più oscurato. È corrente invece un lessico neoliberista che per la verità non espelle la solidarietà dalla politica, ma tende a interpretarla in termini di carità. La parola "carità" è in questo caso troppo importante per sprecarla ed è anche impropria. Allora è meglio dire sostegno se si vuole evitare elemosina. Le politiche neoliberali ritengono la solidarietà necessaria ai fini della coesione sociale, ma la pensano sempre meno in termini di mantenimento e allargamento dei diritti. Nel corso del Novecento la democrazia ha tentato di trasformarsi da democrazia formale in sostanziale proprio attraversi) un'espansione effettiva e materiale dei diritti. Il welfare, come filosofia politica, è il meglio che la storia ha selezionato nel corso del Novecento. Detto questo, sono profondamente convinto che il welfare debba essere riformato e che come taluni economisti sostengono si debba passare da uno stato del benessere a una società del benessere. D'altra parte la complessificazione della società non consente più allo stato centralizzato, e meno che mai alla sua amministrazione, di governare i deficit sociali e di ridurre l'esclusione. Al contrario è giusto che sia la società stessa - attraverso le autonomie, il privato sociale, le attività no profit, il volontariato ecc. - a trasformare gli esclusi in cittadini. A tal fine non bisogna certo imbrigliare la creatività del sociale, ma non bisogna neppure dimenticare che l'eliminazione dell'esclusione è una questione di diritti e non può mai risolversi nel semplice soccorso.
Quando la sinistra tradizionale, in tempi ormai lontani, polemizzava contro le istituzioni assistenziali e volontarie, pensandole come residui, certamente sbagliava ma l'intenzione non era solo biecamente statalista. A suo modo, essa esprimeva una verità: l'inclusione ha poco da spartire con l'assistenza al bisogno, ma riguarda i diritti. In democrazia il cittadino gode di quel che ha perché gli spetta e non perché gli è dato: il titolare di diritti per definizione non dipende, ma esige.
Ha ragione da vendere chi sostiene che le associazioni di volontariato certe cose le fanno meglio e con meno soldi e che la solidarietà non dev'essere confusa con assistenzialismo e burocrazia. Ma proprio perché la solidarietà non dev'essere confusa con l'assistenzialismo essa si configura come un diritto per i cittadini e come un obbligo per le istituzioni. Dico obbligo, non scelta. Che poi, per realizzare questo, bisogna evitare il parassitismo e la burocrazia, è cosa su cui mi trovo perfettamente d'accordo. Il problema vero, però, non è tanto quello di fronteggiare le condizioni di degrado, ma quello di elaborare politiche sociali adeguate per eliminarlo. E allora è necessario evitare quell'impalpabile ricaduta nel degrado che va sotto il nome di "nuove povertà". Poveri invisibili sono oggi tutti quelli che perdono il lavoro e non riescono a ritrovarlo, che escono fuori dal circuito attivo e si ritrovano collocati irreversibilmente nell'ambito della marginalità. E non sono stati mai davvero poveri e quindi sono ancora più disagiati a esserlo: addirittura per vergogna cercano di dissimulare questa loro nuova condizione. E poi vi è la crescente fascia di persone che si può dire vivano ai limiti della sopravvivenza, da definire però in riferimento a quel che la società contemporanea offre: vi sono poveri, infatti, che sono tali non tanto perché non hanno di che vivere ma perché sono loro sbarrati gli accessi a livelli di più alta qualificazione formativa e sociale.
È vero che queste nuove povertà possono essere eliminate o fronteggiate con un incremento della ricchezza sociale media; è vero che non è attraverso l'assistenza ma l'efficienza che una società moderna può ridurre le sue povertà. Ma quest'idea di per sé corretta è spesso maschera per altro. Sarebbe infatti superficiale trascurare l'atteggiamento che nella società contemporanea spesso si tiene nei confronti delle povertà. I poveri vengono facilmente ignorati. Vediamone il perché.
Nel corso del Novecento le grandi lotte sociali e operaie hanno visto quali protagoniste larghe masse di esclusi. Erano davvero in tanti e questa è stata una delle ragioni storiche della crescita dei partiti di sinistra e dell'alleanza privilegiata che questi hanno potuto stipulare con il cattolicesimo sociale e con frange della stessa borghesia moderata. Oggi per fortuna l'inclusione sociale è ampiamente avvenuta e per questo l'interesse dei gruppi e dei singoli non è più quello di essere inclusi sia pure al minimo (per esempio un lavoro qualsiasi pur di lavorare) ma di accedere al massimo o quanto meno al meglio che la società offre. Le politiche di welfare hanno trasformato il volto della società e grazie a esse siamo passati dalla povertà delle masse alle minoranze povere. Ma proprio per questo marginali. Il benessere acquisito dalla maggioranza ha generato una progressiva e fors'anche involontaria indifferenza nei confronti delle povertà. Si guarda in modo crescente al perseguimento del successo individuale e ciò è divenuto perfino cifra della vita sociale, in parte la sua nuova ideologia. Allora, un nuovo egoismo? Forse. Non bisogna però trascurare come in una società degli egoismi sia tutt'altro che peregrino imputare ai poveri la loro povertà come una colpa e non scorgere in essa il possibile esito di diritti negati. Si dà però il caso che i poveri oggi appaiano, ma per una diversa ragione: per dare ai ricchi l'occasione di compier:e buone azioni, d'essere generosi.
Pare che un cattolico conservatore dell'Ottocento dicesse: "Ma se non ci sono i poveri, i ricchi come fanno ad andare in paradiso?". Questa concezione mi è tornata alla mente quando mi è capitato di leggere una di quelle frasi che il "Corriere della sera" usa mettere in testa all'apertura delle pagine culturali. Era di Margaret Thatcher e diceva: "Nessuno si sarebbe ricordato del buon samaritano se avesse avuto solo delle buone intenzioni. Il fatto è (parola di Gesù) che aveva anche i soldi". La Thatcher, come si vede, ritiene che senza soldi non si può essere neppure buoni. In ciò dimentica che la carità cristiana ha poco a che fare con l'elemosina e che "essere prossimo" vuol dire accostarsi all'altro chiunque egli sia e qualunque sia la sua condizione sociale. E da questo punto di vista anche i ricchi sono bisognosi. Le povertà sono, infatti, di varia natura e riguardano anche lo stato della mente, l'anima. Ma per non citare il Vangelo solo a sproposito vale la pena di ricordare quell'episodio in cui si narra di alcuni ricchi che gettavano le loro offerte nel tesoro del tempio. Anche una vedova fece la sua e offrì "tutto quello che aveva". E Gesù disse: "Questa vedova, povera, ha messo più di tutti... Tutti costoro infatti hanno deposto come offerta il loro superfluo, questa invece nella sua miseria ha dato tutto quello che aveva per vivere" (Lc 21, 2).
La carità come dono incondizionato di sé è altra cosa dalla giustizia, tant'è vero che la politica di per sé non l'esige. La carità precede, forse fonda e comunque completa la politica, ma a questa tocca prioritariamente in carico la giustizia. La politica garantisce i diritti, salvaguarda ciò che per tutti è necessario; la carità, al contrario, benefica anche chi lo non merita, comanda di amare perfino i nemici. Non è dunque compito della politica essere caritatevole, ma è suo obbligo perseguire l'uguaglianza, quale autentica e universale tutela delle libertà. Il capitalismo cosiddetto "compassionevole" adombra l'idea che lo stato sociale sia una pratica diversa dalla giustizia e così, morbidamente e quasi sottobanco, la ricolloca nei confini della vecchia beneficenza. Ma già alle origini del capitalismo, Smith avvertiva che "la beneficenza è meno essenziale della giustizia all'esistenza della società. La società può sussistere, anche nel migliore dei modi, senza beneficenza; ma necessariamente, il prevalere dell'ingiustizia la distrugge del tutto".6 Alla luce di questa sagace indicazione, ci è dato comprendere come nella società contemporanea l'assistenza rimane del tutto fraintesa, e si muta addirittura in una nozione equivoca, se non la si concepisce in termini di giustizia. "Ma anche se la necessaria assistenza non dovesse essere fornita da motivi generosi e disinteressati, anche se tra i differenti membri della società non dovessero esserci amore e affetto reciproco, la società, pur essendo meno felice e piacevole, non necessariamente ne risulterebbe dissolta. La società può sussistere tra uomini diversi, come tra diversi mercanti, per il senso della sua utilità, senza alcun amore o affetto reciproco."7 Nel parlare di assistenza, partiamo dunque dal prosaico e ragioniamo di diritti. Da Smith a oggi di tempo ne è passato e abbiamo un'idea più larga circa quel che per noi può e deve significare necessaria assistenza; nello stesso tempo abbiamo acquisto una più sofisticata nozione di utilità. Oggi non è possibile perseguire un vero utile privato se si prescinde dal pubblico benessere. La garanzia del pubblico benessere è, allora, da considerare come un fattore ineliminabile di utilità. E tutto ciò senza chiamare in causa l'amore - meno che mai quello cristiano - che è troppo esigente per poter essere preso per vero senza sospetto.
551 di 996 - 21/1/2018 10:35
lella6 N° messaggi: 1519 - Iscritto da: 01/2/2010

L'angolino del sorriso...

POLITICAMENTE CORRETTO....

Il presidente Renzi, in visita ufficiale in Inghilterra, viene invitato per un tè dalla Regina Elisabetta. Durante l’incontro le chiede qual è la sua strategia di leadership, e lei risponde che consiste nel circondarsi di persone intelligenti.
A questo punto Renzi le chiede come fa a giudicare se sono intelligenti. “Lo capisco facendogli la domanda giusta.” – risponde la Regina – “Mi permetta di dimostrarglielo”.
La regina allora telefona a David Cameron e dice: “Signor Primo Ministro, la prego di rispondere alla seguente domanda: sua madre ha un bambino, e suo padre ha un bambino, e questo bambino non è né suo fratello né sua sorella. Chi è?”.
David Cameron risponde: “Ovviamente sono io!”
“Corretto! Grazie, e a risentirci, sir.”, dice la Regina.
Sua Maestà attacca la cornetta e dice: “Ha capito Mr. Renzi?”.
“Sicuro. Grazie mille. Farò senz’altro anch’io così!”.
Al rientro a Roma decide di mettere alla prova Orfini: lo fa quindi venire a Palazzo Chigi, e gli dice: “Ascolta, Matteo, mi chiedevo se potessi rispondere a una domanda.”
“Certamente, signor Presidente, cosa vuole sapere?”.
“Ehm, tua madre ha un bambino, e tuo padre ha un bambino, e questo bambino non è né tuo fratello né tua sorella. Chi è?”.
Orfini ci pensa un po’, poi imbarazzato dice: “Posso pensarci meglio e rispondere poi correttamente?”. Renzi acconsente, e Orfini se ne va.
Appena uscito da Palazzo Chigi, Orfini organizza subito una riunione con altri colleghi di partito, i quali si lambiccano il cervello per diverse ore, ma nessuno riesce a trovare la risposta giusta.
Ad un certo punto ad Orfini viene in mente di interpellare il filosofo Cacciari e gli spiega la situazione: “Adesso ascolta la domanda: tua madre ha un bambino, e tuo padre ha un bambino, e questo bambino non è né tuo fratello né tua sorella. Chi è?”.
Cacciari risponde subito: “Ovviamente sono io!”Razza di deficienti!!”.
Estremamente sollevato, Orfini corre a Palazzo Chigi e dice al Presidente: “Presidente, so la risposta alla sua domanda! So chi è il bambino! E’ Cacciari!”.
E Renzi risponde, disgustato: “Cretino, è David Cameron!”.
MODERATO Miss Monny Penny (Utente disabilitato) N° messaggi: 1275 - Iscritto da: 19/10/2017
MODERATO DucaConte LupoGufoCorvo (Utente disabilitato) N° messaggi: 2372 - Iscritto da: 23/10/2017
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557 di 996 - 27/1/2018 18:57
lella6 N° messaggi: 1519 - Iscritto da: 01/2/2010
CERCAVO TE NELLE STELLE
di Primo Levi

Cercavo te nelle stelle
quando le interrogavo bambino.
Ho chiesto te alle montagne
ma non mi diedero che poche volte
solitudine e breve pace.
Perché mancavi, nelle lunghissime sere
meditai la bestemmia insensata
che il mondo era uno sbaglio di Dio,
io uno sbaglio del mondo.
E quando, davanti alla morte,
ho gridato il NO da ogni fibra,
che non avevo ancora finito,
che troppo ancora dovevo fare,
era perché mi stavi davanti,
tu con me accanto, come oggi avviene,
un uomo e una donna sotto il sole.
Sono tornato perché c’ eri Tu.

11 Febbraio, 1946
MODERATO Fausto Bertinotti (Utente disabilitato) N° messaggi: 801 - Iscritto da: 23/10/2017
559 di 996 - 27/1/2018 23:50
quasi40 N° messaggi: 1287 - Iscritto da: 25/8/2016
@ Ottimo, Fausto. Possiamo dire che se conoscere è necessario può diventare possibile comprendere, senza con ciò giustificare ?
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