Tutto Ciò Che Mi Viene In Mente.... (EURUSD)

- Modificato il 23/3/2013 12:36
protomega N° messaggi: 23994 - Iscritto da: 02/3/2007
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in questo forum ho imparato a postare foto...

e poichè lo ritengo una cosa piacevole quando la mia insana mente si intasa ha bisogno di scaricare

energie...

 al fine di tornare lucido tutto ciò che mi passa per la testa lo posto...

tutti coloro che hanno questo tipo di problema,ritengo questo un posto adatto...

diciamo una clinica moderna atta a riformattare gli hard-disk ormai allo stato  di rottamazione...

oh,siete tutti invitati quando volete....

l'età non conta e nemmeno il sesso.......

l'ingresso è consentito a tutti comunitari extra,bianchi neri gialli e mulatti...

anche con permesso di soggiorno scaduto....

in validi civili e di guerra...falsi invalidi....soprattutto cechi...i miei preferiti...

la classe politica ed i colori come detto non sono importanti...      













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21 di 9422 - 05/12/2010 13:47
protomega N° messaggi: 23994 - Iscritto da: 02/3/2007
Eutanasia



Fino a qualche decennio fa in Sardegna si praticava l'eutanasia. Era compito di “sa femmina accabbadora” procurare la morte a persone in agonia. Studi approfonditi e analisi della documentazione rinvenuta presso curie e diocesi sarde e presso musei, hanno accertato la reale esistenza di questa figura.

S’accabadora era una donna che, chiamata dai familiari del malato terminale, provvedeva ad ucciderlo ponendo fine alle sue sofferenze. Un atto pietoso nei confronti del moribondo ma anche un atto necessario alla sopravvivenza dei parenti, soprattutto per le classi sociali meno abbienti: negli stazzi della Gallura e nei piccoli paesi lontani da un medico molti giorni di cavallo, serviva ad evitare lunghe e atroci sofferenze al malato.

Sa femmina accabbadora arrivava nella casa del moribondo sempre di notte e, dopo aver fatto uscire i familiari che l’avevano chiamata, entrava nella stanza della morte: la porta si apriva e il moribondo, dal suo letto d’agonia, vedeva entrare sa femmina accabadora vestita di nero, con il viso coperto, e capiva che la sua sofferenza stava per finire.
Il malato veniva soppresso con un cuscino, oppure la donna assestava il colpo de “su mazzolu” provocando la morte. S’accabbadora andava via in punta di piedi, quasi avesse compiuto una missione, ed i familiari del malato le esprimevano profonda gratitudine per il servizio reso al loro congiunto offrendole prodotti della terra.

Quasi sempre il colpo era diretto alla fronte, da cui, probabilmente, il termine accabbadora, dallo (spagnolo??) acabar, terminare, che significa alla lettera “dare sul capo”. Su mazzolu era una sorta di bastone appositamente costruito e che si può vedere nel Museo Etnografico Galluras. E' un ramo di olivastro lungo 40 centimetri e largo 20, con un manico che permette un’impugnatura sicura e precisa. Su mazzolu esistente al museo Galluras è stato trovato nel 1981: s’accabbadora lo aveva nascosto in un muretto a secco vicino a un vecchio stazzo che una volta era la sua casa.

In Sardegna s’accabbadora ha esercitato fino a pochi decenni fa, soprattutto nella parte centro-settentrionale dell’isola. Gli ultimi episodi noti di accabbadura avvennero a Luras nel 1929 e a Orgosolo nel 1952. Oltre i casi documentati, moltissimi sono quelli affidati alla trasmissione orale e alle memorie di famiglia. Molti ricordano un nonno o bisnonno che comunque ha avuto a che fare con la signora vestita di nero.
A Luras, in Gallura, s’accabbadora uccise un uomo di 70 anni. La donna però non fu condannata e il caso fu archiviato. I carabinieri, il Procuratore del Regno di Tempio Pausania e la Chiesa furono concordi che si trattò di un gesto umanitario. Infatti tutti sapevano e tutti tacevano, nessuna condanna sembra sia stata mai perpetrata nei confronti di questa donna missionaria che si faceva carico materialmente e moralmente di porre fine alle sofferenze del malato.

La sua esistenza è sempre stata ritenuta un fatto naturale... come esisteva la levatrice che aiutava a nascere, esisteva s'accabbadora che aiutava a morire. Si dice addirittura che spesso era la stessa persona e che il suo compito si distinguesse dal colore dell’abito (nero se portava la morte, bianco o chiaro se doveva far nascere una vita).
Questa figura è espressione di un fenomeno socio-culturale e storico e la pratica dell’eutanasia “ante litteram” nei piccoli paesi rurali della Sardegna è legata al rapporto che i sardi avevano con la morte. Nella cultura della comunità sarda, non è mai esistito una vera paura di fronte agli ultimi istanti della vita dell’uomo. Si può anzi dire che i sardi avessero una propria e personale gestione della morte, considerata il naturale ciclo della vita.


22 di 9422 - Modificato il 05/12/2010 14:00
protomega N° messaggi: 23994 - Iscritto da: 02/3/2007
Dalla distruzione alla rinascita. Dimenticare il passato per apprezzare il presente?
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Il turismo, a volte, è una brutta gatta da pelare, si sa.

È curioso pensare a come lo sviluppo, la “modernità”, se così la vogliamo chiamare, riescano in alcuni a casi a celare ciò che è la Storia.

Di fronte alla bellezza spesso è difficile immaginare il retroscena.

A volte non ci si preoccupa nemmeno di scavare, scoprire e capire, ci si limita a guardare senza dare il giusto significato all’osservazione.

È bello pensare a come, il passare del tempo e le circostanze ovviamente, possano permettere talvolta la ripresa di tutto ciò che era perduto, la ricostruzione delle città così come delle vite delle persone che le abitano, la rinascita dalle macerie di speranze e orgogli che a volte la guerra lacera a tal punto da non credere che sia possibile una nuova vita. Diversa e migliore rispetto alla precedente.

Le guerre affascinano si sa, nonostante al loro interno posseggano quella forza malata che distrugge tutto ciò che incontra, che non lascia spazio alla bellezza in generale. Eppure, nonostante ciò sono ugualmente motivo di riflessione anche da questo punto di vista, apparentemente poco rilevante davanti a tutto quello che una battaglia comporta.

Il turismo a volte è il primo responsabile di questa sorta di menefreghismo, turismo da quattro soldi, o molti di più.


Dev’essere che la gente è cieca, spesso e volentieri, o non è interessata vedere, se non per il solo gusto di dare un’occhiata. Ci si limita al poco, più comoda come cosa.

D'altronde ciò che spesso si chiede ad un viaggio, una vacanza, è il relax.

La superficialità è certamente una brutta bestia da sconfiggere.



In relazione a tutto ciò, se avete tempo, leggetevi questo articoletto.

23 di 9422 - 05/12/2010 14:10
protomega N° messaggi: 23994 - Iscritto da: 02/3/2007
Sindrome di Münchhausen


Con sindrome di Münchhausen s'intende una patologia apparente provocata volontariamente dal paziente stesso e che produce segni clinici simili ad altre malattie.

Tali disturbi fittizi spesso non sono riconosciuti subito dal medico come tali ma vengono, nella maggior parte dei casi, scoperti escludendo la presenza di tutte le affezioni che normalmente presentano il quadro sintomatologico in essere. Solitamente i pazienti con disturbi fittizi sono preda di rimuginazioni su come convincere il medico a prendere sul serio la propria sofferenza. Il loro tono affettivo prevalente è la superficialità emotiva.

Le cause della sindrome di Münchhausen sono spesso psicologiche o sociali.

Una variante della sindrome di Münchhausen è la Sindrome di Münchhausen per procura che consiste nel danneggiare deliberatamente il corpo di qualcun altro, in genere dei propri figli, per appagare un desiderio inconscio di mettere in atto un dramma personale e rinforzare la loro relazione con la figura medica che occupa le loro fantasie.

La sindrome di Münchausen per procura rientra nella tipologia di patologie conosciute col nome di Patologie della cura, in tal caso si parla di iper-cura.

24 di 9422 - 05/12/2010 14:13
protomega N° messaggi: 23994 - Iscritto da: 02/3/2007
Sindrome di Münchhausen per procura


Sindrome di Münchhausen per procura, conosciuta anche come sindrome di Polle (Polle era il figlio del barone di Münchhausen, morto infante in circostanze misteriose) è il nome di un disturbo mentale che affligge per lo più donne madri che le spinge ad arrecare un danno fisico al figlio/a per attirare l'attenzione su di sé.

La madre viene così a godere della stima e dell'affetto delle altre persone perché la madre si preoccupa della salute del proprio figlio/a.

Questa sindrome costituisce un serio abuso sull'infanzia
25 di 9422 - 05/12/2010 14:18
protomega N° messaggi: 23994 - Iscritto da: 02/3/2007
Paranoia

Per paranoia si intende una psicosi caratterizzata da un delirio cronico, basato su un sistema di convinzioni a tema persecutorio non corrispondenti alla realtà. Questo sistema di convinzioni si manifesta sovente nel contesto di capacità cognitive e razionali altrimenti integre. Il termine (che deriva dal greco παράνοus, "fuori dalla mente") è stato usato storicamente con diverse sfumature di significato, ed oggi non è più incluso nella terminologia internazionale ufficiale relativa alle patologie mentali, essendo stato sostituito dal concetto più generale, ma più chiaramente definibile, di disturbo delirante.[1]

Descrizione [modifica]
Nel significato corrente più abituale, in uso soprattutto nella letteratura psichiatrica anglosassone, il termine "paranoia" indica una contingenza di disturbo mentale lucido, caratterizzato dalla convinzione delirante del paziente di essere perseguitato (o, più specificatamente, dall'ideazione che qualcuno o qualcosa abbia intenzione di nuocergli). Questa condizione è spesso caratterizzabile come una degenerazione patologica di alcuni tratti caratteriali come la diffidenza, l'inclinazione al pregiudizio o l'insicurezza. Il sistema di credenze di tipo persecutorio viene elaborato dal paziente in modo lucido e sistematico, ovvero non viene in generale a mancare la funzione razionale. In questo senso la paranoia si può descrivere come un caso particolare di disturbo delirante.

Esempi piuttosto comuni sono la convinzione di essere pedinati e spiati, di essere avvelenati, di avere una qualche malattia prodotta da azioni nocive di persecutori, di essere vittima di parassiti (come nella parassitosi allucinatoria), di subire o aver subito lavaggi del cervello o controllo mentale, di voler essere allontanati dalla società verso posti lontani dove terzi potranno approfittare della propria mente. Il paranoico sviluppa quindi un atteggiamento antisociale, attribuendo alla società la paranoia stessa della quale il soggetto è vittima. È tipico il ribaltamento sulla società dei propri stessi atteggiamenti, per i quali il soggetto si sente vittima. Il desiderio di vendetta che innesca questa lucida autoconvinzione è spesso causa di condotte socialmente pericolose. Molti serial-killer sono stati identificati come paranoici. La loro volontà di vendetta era in realtà la voce incorporea della loro stessa paranoia, di cui molti si sono definiti vittime.

La paranoia può essere associata ad altre forme di psicosi, in particolare la schizofrenia, e quindi anche associarsi a fenomeni allucinatori; caratteristiche attenuate possono essere presenti in altre situazioni con diagnosi principalmente non-psicotica, come il disturbo paranoide della personalità. La discriminante tra un disturbo di personalità e una condizione psicotica è nel fatto che, oltre che pervasivi e improbabili, i timori paranoici di grado psicotico sono anche chiaramente irrealistici o impossibili, e si accompagnano a percezioni allucinatorie. Alcune droghe, come le metamfetamine, possono portare all'insorgere di condizioni mentali paranoiche o rendere allucinatorie tendenze già presenti in forma latente.

Storia del termine [modifica]
"Paranoia" non è un neologismo composto; il termine esisteva già in greco, col significato generale di "follia". Fu introdotto nella psichiatria moderna nel XIX secolo, da Emil Kraepelin, che lo impiegò per descrivere ogni tipo di malattia mentale caratterizzata solo o soprattutto dalla presenza di un sistema di credenze illusorie, deviate, che in quanto tali alterano la percezione della realtà del paziente. In particolare, Kraepelin indicava come "paranoia pura" una condizione patologica caratterizzata dall'adesione a un sistema di credenze illusorio, senza alcun apparente deterioramento delle altre facoltà intellettuali, a prescindere dal fatto che tali credenze avessero o meno a che vedere con un complesso di persecuzione. Anche se la definizione di Kraepelin non è più usata, l'uso del termine "paranoico" in questo senso ampio sopravvive nella terminologia psichiatrica, che per esempio indica con l'espressione schizofrenia paranoide le forme di schizofrenia in cui false credenze siano predominanti.

Freud menzionò la paranoia nel 1895 in un documento noto come Minuta H, in effetti un allegato di una lettera di Freud al suo più stimato interlocutore, il dottor Fliess. Freud si riferiva al caso di una donna ossessionata da "voci interiori" che la criticavano.

Nel XX secolo si è andata via via imponendo l'accezione più restrittiva del termine "paranoia" col riferimento specifico a complessi di credenze a tema persecutorio. Al contempo, è stata adottata l'espressione "disturbo delirante" per riferirsi al concetto più generale di delirio lucido e razionale, che include per esempio il caso di coloro che sono patologicamente convinti di essere amati da qualcuno (per esempio personaggi pubblici, la cosiddetta sindrome di de Clerambault), di avere ricevuto una speciale missione da parte di Dio, di essere traditi dal proprio partner, e via dicendo.

Dubbi nell'identificazione della paranoia [modifica]
« Il fatto che tu sia paranoico non significa che non ti stiano dando la caccia »
(Kurt Cobain, Territorial Pissings[2])

Da un punto di vista psichiatrico, non è sempre chiaro come si possa distinguere un paranoico da una persona mentalmente sana che sia effettivamente nella posizione di avere molti nemici o essere possibile bersaglio di congiure o persecuzioni. Per esempio, Stalin viene talvolta descritto come paranoico, ma è ragionevole presumere che molte persone volessero realmente la sua morte. Potrebbe darsi che con un numero sufficiente di nemici (per esempio nel caso delle persone molto potenti) sia impossibile non essere clinicamente paranoici. La discriminante teorica (che le paure del soggetto siano o meno fondate) non è sempre applicabile con certezza.

Nel linguaggio comune [modifica]
Come nel caso delle fobie o delle manie di vario genere, il termine "paranoia" viene spesso usato nel linguaggio comune in maniera imprecisa, a prescindere da connotazioni patologiche, per riferirsi a persone che mostrano di ritenersi vittima di qualche persecuzione, o anche semplicemente ansiose o apprensive. Anche le persone che hanno sistemi di credenze riconducibili a teorie del complotto sono talvolta definibili come "paranoiche" [3] [4]. Nel gergo giovanile, la parola "paranoia" è spesso usata in un'accezione ancora più impropria, ovvero come rafforzativo di "paura", o "angoscia".

26 di 9422 - 05/12/2010 14:28
protomega N° messaggi: 23994 - Iscritto da: 02/3/2007
Colpevolizzazione della vittima

La colpevolizzazione della vittima consiste nel ritenere la vittima di un crimine o di altre sventure parzialmente o interamente responsabile di ciò che le è accaduto e spesso nell'indurre la vittima stessa ad autocolpevolizzarsi. Un atteggiamento di "colpevolizzazione" è anche connesso con l'ipotesi che si deve conoscere e accettare una supposta "natura umana" (che sarebbe maligna in questa visione, o tendente all'abuso, alla sopraffazione), e -conseguentemente- adeguarcisi anche a scapito dei propri desideri, opinioni e della propria libertà .

Storia del concetto [modifica]
Il concetto di "colpevolizzazione della vittima" è stato coniato da William Ryan con la pubblicazione,nel 1976, del suo libro intitolato appunto "Blaming the victim"[1]. La pubblicazione è una critica al lavoro di Daniel Patrick Moynihan "The Negro Family: The Case for National Action" del 1965, in cui l'autore descriveva le sue teorie sulla formazione dei ghetti e la povertà intergenerazionale. Ryan muove una critica a queste teorie in quanto le considera tentativi di attribuire la responsabilità della povertà al comportamento e ai modelli culturali dei poveri stessi. Il concetto è stato ripreso in ambito legale, in particolare in difesa delle vittime di stupro accusate a loro volta di aver causato o favorito il crimine subito.

Colpevolizzazione nei crimini sessuali e/o d'odio [modifica]
Nel contesto dello stupro e della violenza di genere, questo concetto si riferisce alla tendenza diffusa ad interpretare "colpevolizzandoli" i comportamenti delle vittime. Abusi e violenze sarebbero provocati quindi in molti modi: dal flirtare, al tipo di abbigliamento indossato (in questo caso ci sono interessanti variabili geografiche e culturali) ,all'essersi trovata nel "posto sbagliato al momento sbagliato"[2][3]. Nell'ambito della violenza domestica e nel mobbing il processo di colpevolizzazione della vittima è stato descritto[4][5] come parte integrante della violenza fisica e verbale: i comportamenti della vittima vengono sistematicamente interpretati come "provocazione" alla violenza[6]. In alcuni casi si cercano di colpevolizzare le vittime anche retrospettivamente, analizzandone il vissuto, il lavoro, lo stato civile, il comportamento, presumendo quindi che la vittima "se l'è cercata" o che abbia "meritato" la violenza subita.[7][8]. In alcuni casi anche l'orientamento sessuale viene usato nel meccanismo di colpevolizzazione della vittima[9] [10]. Le violenze e gli abusi sessuali sono particolarmente stigmatizzati nelle culture con costumi restrittivi e tabù riguardanti sesso e sessualità. Ad esempio una persona sopravvissuta ad uno stupro (specialmente se prima era vergine) può essere socialmente pecepita come "deteriorata". Le vittimime in casi simili possono soffrire a causa del conseguente isolamento, dall'essere rinnegate da amici e parenti, della possibile interdizione al matrimonio o dal divorzio forzato se precedentemente sposate, ed infine possono anche essere uccise[11].

Vittimizzazione secondaria [modifica]
Generalmente si parla di "vittimizzazione secondaria" (o "post-crime victimization") quando le vittime di crimini subiscono una seconda vittimizzazione da parte delle istituzioni, dagli operatori e operatrici sociali o dall'esposizione mediatica non voluta. A questo proposito l'assemblea generale delle Nazioni Unite, nel 1985 ha formulato la "dichiarazione dei principi basilari della giustizia per le vittime di reato e abuso di potere" (UN,1986; risoluzione annuale 40/34)[12].

La colpevolizzazione come reazione ad una dissonanza cognitiva [modifica]
Alcuni hanno proposto che il fenomeno della colpevolizzazione della vittima coinvolga l'ipotesi del mondo giusto, in cui la gente tende a considerare il mondo come un posto giusto e non può accettare una situazione in cui una persona soffre senza un valido motivo. Quindi il ragionamento che viene fatto è il seguente: le persone che sono vittime di sventure, devono aver fatto qualcosa per averle attirate su di sé. Questa teoria risale a tempi molto antichi: il biblico Libro di Giobbe ne offre una spiegazione canonica.
I sostenitori di questa visione devono per forza accettare che fare altrimenti richiederebbe loro di abbandonare questo atteggiamento consolidato, e credere invece in un mondo dove "cose cattive" come povertà, stupro, fame e violenza possano accadere anche a "brave persone" e senza un "buon motivo"; ma facendo ciò la dissonanza cognitiva diventa insostenibile e produce la colpevolizzazione della vittima.

27 di 9422 - 05/12/2010 14:40
protomega N° messaggi: 23994 - Iscritto da: 02/3/2007
Schizofrenia

La schizofrenia è una forma di malattia psichiatrica caratterizzata, secondo le convenzioni scientifiche, da un decorso superiore ai sei mesi (tendenzialmente cronica o recidivante), dalla persistenza di sintomi di alterazione del pensiero, del comportamento e dell'affettività, con una gravità tale da limitare le normali attività della persona.

Il termine, coniato dallo psichiatra svizzero Eugen Bleuler nel 1908, deriva dal greco σχίζω (schizo, divido) e φρενός (phrenos, cervello), 'mente divisa'. Il termine proposto da Bleuler sostituì quello ottocentesco di Dementia Praecox, proposto da Emil Kraepelin. La pronuncia corretta della "z" di schizofrenia è come in zero, non come in nazione.

È da tenere presente che schizofrenia è un termine piuttosto generico che indica non una entità nosografica unitaria, ma una classe di disturbi, tutti caratterizzati da una certa gravità e dalla compromissione del cosiddetto "esame di realtà" da parte del soggetto. A questa classe appartengono quadri sintomatici e tipi di personalità anche molto diversi fra loro, estremamente variabili per gravità e decorso.

In casi molto gravi i sintomi possono arrivare alla catatonia, al mutismo, provocare totale inabilitazione. Nella maggioranza dei casi di schizofrenia vi è qualche forma di apparente disorganizzazione o incoerenza del pensiero. Vi sono però certe forme dove questo sintomo non compare, e compaiono invece rigide costruzioni paranoidi.

Panoramica generale

La schizofrenia si caratterizza, secondo la tradizione medica, per due tipi di sintomi:

sintomi positivi: sono comportamenti o esperienze del soggetto "in più" rispetto all'esperienza e al comportamento dell'individuo normale. Si possono perlopiù includere sotto il termine più generale di psicosi. Questi sintomi possono essere: le idee fisse, i deliri, le allucinazioni e il disturbo del pensiero (per la diagnosi non occorre che si manifestino tutti questi sintomi, a seconda dei casi è sufficiente che ve ne siano uno o due).
sintomi negativi: sono chiamati così quelli che sono diminuzione, declino o scomparsa di alcune capacità o esperienze normali del soggetto. Possono includere inadeguatezza nel comportamento della persona, distacco emotivo o assenza di emozioni, povertà di linguaggio e di funzioni comunicative, incapacità di concentrazione, mancanza di piacere (anedonia) e mancanza di motivazione.
Alcuni modelli descrittivi nella schizofrenia includono un terzo tipo di sintomi (schizofrenia di terzo tipo detta sindrome disorganizzata) dove compaiono soprattutto disturbo del pensiero e problemi di pianificazione. I sintomi possono prendere la forma di deficit neurocognitivi: si tratta dell'indebolimento di alcune funzioni di base quali la memoria, l'attenzione, la risoluzione di problemi, la funzione esecutiva e la cognizione sociale.

Storia e prime classificazioni [modifica]
È una malattia antica, nota già nel mondo classico greco-romano e non completamente sconosciuta presso gli antichi Egizi,[1] che però per molti secoli è stata confusa con stati di possessione demoniaca.
I primi casi di schizofrenia riportati dalla letteratura medica risalgono al 1797, grazie alle opere di James Tilly Matthews, e alle pubblicazioni effettuate da Philippe Pinel nel 1809.[2] Fu, invece, lo psichiatra Emil Kraepelin, nel 1883, il primo sia ad individuare quelle alterazioni che attualmente vengono definite neuropsicologiche, ossia demenza e la sua manifestazione precoce demenza precoce, che in seguito venne appunto rinominata schizofrenia da Eugen Bleuler, sia a introdurre una classificazione dei disordini mentali più vasta e completa (includente depressione unipolare, bipolare, maniacale, etc.).[3]

Nel suo Trattato di psichiatria Kraepelin aveva già individuato tre forme possibili di schizofrenia:

schizofrenia ebefrenica, in cui prevale la dissociazione del pensiero
schizofrenia paranoica, dove prevalgono idee fisse, allucinazioni e deliri
schizofrenia catatonica, in cui prevalgono i "disturbi della volontà" o disorganizzazione comportamentale.
La scelta del termine schizofrenia, fa riferimento alla interpretazione data all'epoca a questa malattia, alla definizione teorico-clinica del disturbo come: dissociazione, ovvero una separazione o mancata interazione tra il pensiero e la percezione della realtà da parte del soggetto. Bleuler, con le sue prime ricerche del 1908 ed in seguito con la classica sistematizzazione del 1911 (Dementia Praecox oder Gruppe der Schizophrenien), codificò anche la differenza tra sintomi positivi e negativi.

Il dibattito scientifico intorno alla schizofrenia [modifica]
L'esistenza della condizione schizofrenica, attribuibile a una parte dell'umanità, era in un certo senso nota da secoli nella cultura occidentale. La condizione di disadattamento e incapacità di comunicare con altri dell'individuo si associa al nome tradizionale di follia, e le persone colpite da tale disadattamento grave potevano essere chiamate "maniaci", "folli" o "indemoniati" e così via.

L'affermarsi di un'osservazione sistematica è stata concomitante allo sviluppo della psichiatria, sono seguiti tentativi di "curare" i "folli" con metodi ispirati a principi scientifici. Ciò avvenne nel corso dell'800 in luoghi che in effetti erano solo strutture di contenimento o segregazione come sanatori, manicomi e carceri. La "spiegazione" della schizofrenia rimaneva un mistero, e secondo molti lo è tuttora: i modelli descrittivi delle varie scuole di psicologia e della psicanalisi come pure le indagini della neurologia non descrivono in tutti gli aspetti il funzionamento della mente e non danno una risposta definitiva. Vi sono autori che hanno anche teorizzato che la malattia mentale sia necessariamente da considerare un mistero e che una risposta semplicemente non c'è: la posizione è esemplificata da Karl Jaspers, che sostiene che la condizione psicotica non ha nessun contenuto e non si deve cercare una spiegazione razionale all'interno del vissuto del malato. L'idea diametralmente contraria, formulata da Ronald David Laing, è che la psicosi - cioè fenomeno in cui il comportamento e la comunicazione del paziente ci appaiono totalmente illogici - sia in realtà una esperienza umana perfettamente comprensibile al pari di tutte le altre, che può essere immaginata empaticamente da chi volesse porsi nel punto di vista adatto.

L'approccio diagnostico e terapeutico della schizofrenia, fin dal problema della sua definizione, è stato oggetto di forti dibattiti nella storia della medicina. Il movimento anti-psichiatrico, che ispirandosi a Laing giunse anche a conclusioni estreme, pose in evidenza come la classificazione di alcuni pensieri e comportamenti di determinati individui come "malattia", è semplicemente ciò che permette il controllo sociale di persone considerate indesiderabili, inaffidabili o scomode per la società, persone che tuttavia non hanno commesso alcun crimine. In effetti il termine stesso "schizofrenia" funziona come un'etichetta o uno stigma, ma in realtà - ciò si evidenzia dalle diagnostica complessa dei sintomi - è un termine che definisce piuttosto il grado della sofferenza psichica, in termini di isolamento, inabilitazione e capacità comunicative della persona colpita da disagio psichico. Il termine schizofrenia nonostante l'effetto di stigma ha un confine semantico complesso e indefinito, che può rendere il suo uso privo di significato clinico, e secondo alcuni sarebbe meglio non usarlo affatto. La questione dell'uso del termine non risolve però il problema dell'esistenza di malattie mentali molto gravi. In merito alle psicosi schizofreniche, la posizione antipsichiatrica classica (quella sorta nel periodo della maggiore contestazione, negli anni '60 e'70) sembra mostrare oggi anche i limiti esplicativi basati sui suoi assunti - talvolta intrecciati a formulazioni squisitamente ideologiche e non osservazionali - così che nemmeno le idee antipsichiatriche riescono a rendere conto di tutti i dati oggettivi.

Allo stato delle conoscenze scientifiche, molti aspetti della malattia restano oscuri, la schizofrenia è uno dei 'buchi neri' della medicina, a partire dalla formulazione della diagnosi come nelle forme di trattamento. Rappresenta una continua sfida per il curante poiché è costretto 'comunque' a fare delle scelte, cioè delle precise assunzioni di responsabilità, senza essere sostenuto da informazioni certe sulle cause, sulla diagnosi, sulla terapia e sul decorso. Per es., se vengono prescritti neurolettici, ciò comporta una serie di implicazioni che spingono verso una direzione; se viene avviata una psicoterapia, ci sono tutta una serie di implicazioni logico pragmatiche che spingono in un'altra, ma nessuna delle due posizioni è sostenuta da criteri oggettivi tranne che non si voglia considerare tra questi il criterio 'ex adiuvantibus' (dai giovamenti).

Le analisi sulla malattia sono in gran parte analisi correlate, ma non distinte, tanto del comportamento abnorme del paziente quanto delle reazioni di chi sta vicino a quel comportamento, si tratti di familiari, amici o di una equipe curante. Tutta la storia della schizofrenia è una storia di azioni e reazioni: sintomi, segni e rifiuti, ospedali psichiatrici e case di cura, azioni 'inconsulte' (a volte semplicemente incomprensibili), interventi dell''ordine pubblico' e psichiatri. Lo stesso Kraepelin, che pure ebbe la grande intuizione di unificare quadri clinici apparentemente diversi, li studiò negli ospedali psichiatrici dell'epoca, con l'immaginabile attendibilità, specie sotto il profilo del decorso e dell'esito.

Diagnosi (criteri DSM IV-TR) [modifica]
Per la diagnosi di schizofrenia conta sia la natura sia la durata dei sintomi (sintomi che differiscono per durata caratterizzano ad esempio il Disturbo schizofreniforme).

La forma abbreviata dei criteri diagnostici DSM-IV-TR: La diagnosi di schizofrenia richiede il soddisfacimento del seguente criterio:

A) (Sintomi caratteristici) La presenza persistente di due o più dei sintomi che seguono, per un periodo significativo che si considera di almeno un mese (si osserva che la durata può essere inferiore se il sintomo recede a seguito di trattamento):

deliri
allucinazioni
disorganizzazione del discorso verbale (es: perdere il filo, incoerenza, divagazione e espressione troppo astratta)
grave disorganizzazione del comportamento (es. nel vestiario, nelle abitudini diurne, disturbi del sonno, disforia, piangere o ridere frequentemente e inappropriatamente), oppure stato gravemente catatonico
presenza di sintomi negativi, cioè che trasmettono un forte senso di disinteresse, lontananza o assenza del soggetto: appiattimento affettivo (mancanza o forte diminuzione di risposte emozionali), alogia (assenza di discorso), avolizione (mancanza di motivazione), disturbi dell'attenzione e delle capacità intellettive, assenza di contatto visivo
Nota: Il soddisfacimento del criterio A è l'unico richiesto (cioè per la diagnosi non si richiede il soddisfacimento dei punti B e C) solo nel caso che le idee fisse siano bizzarre e irrealistiche, oppure nel caso che le allucinazioni consistano nell'udire due o più voci identificabili come irreali che parlano fra loro, oppure una voce che "commenta" in diretta le azioni e percezioni del paziente.

B) Deficit o disfunzione sociale e/o occupazionale: Per un periodo di tempo significativo uno o più degli ambiti principali della vita del soggetto sono gravemente compromessi rispetto a prima della comparsa del disturbo (lavoro, relazioni interpersonali, cura del proprio corpo, alimentazione ecc.)

C) Durata: persistenza dei sintomi "B" per almeno sei mesi, che includano almeno un mese di persistenza dei sintomi "A".

Esistono ulteriori criteri (D, E ed F) che servono per diagnosi differenziali o per escludere la schizofrenia nel caso in cui sia stato diagnosticato un disturbo dell'umore grave (come la depressione maggiore); oppure in caso di grave disturbo dell'età evolutiva, o disturbi neurologici dovuti a condizioni mediche generali, o che i sintomi siano effetto dell'uso di sostanze come droghe o farmaci.

Sottotipi [modifica]
La classificazione più tradizionale considera quattro forme principali di schizofrenia: la schizofrenia catatonica; la schizofrenia ebefrenica; la schizofrenia paranoide, e la schizofrenia semplice. Il criterio DSM classifica ad oggi cinque forme, indicate di seguito. È indicata a fianco la classificazione alfanumerica corrispondente nelle tabelle ICD 9 (a sinistra) e ICD 10 (a destra) dell'Organizzazione Mondiale della Sanità. Il criterio ICD 10 identifica invece 7 forme.

(295.2/F20.2) tipo catatonico: dove sono evidenti macroscopici disturbi psicomotori, come ad esempio lo stupore catatonico, rigidità o flessibilità anomale del tono muscolare
(295.1/F20.1) tipo disorganizzato (o ebefrenico): l'appiattimento affettivo (chiusura in sé, disinteresse ecc.) è presente insieme alla disorganizzazione del pensiero, eventuali disordini del comportamento
(295.3/F20.0) tipo paranoide: i sintomi principali sono idee fisse (deliri) che includono allucinazioni, ma possono essere assenti i disturbi/disorganizzazione del pensiero o comportamento e appiattimento affettivo. Questa forma compare frequentemente dopo i 35 anni in pazienti che hanno già qualche disturbo strutturato, con decorso lento e insidioso[senza fonte].
(295.6/F20.5) tipo residuo: viene definita così una forma dove i sintomi positivi (psicotici ma non paranoidi) sono presenti ma hanno bassa intensità, mentre quelli negativi sono significativi. Spesso compare come esito di un disturbo psichico maggiore (es: episodio schizofrenico acuto, depressione maggiore)
(295.9/F20.3) tipo indifferenziato: presenza di sintomi positivi (psicosi) non strutturati secondo i criteri delle precedenti forme
Diffusione [modifica]
Epidemiologia [modifica]
La schizofrenia è una malattia ubiquitaria, riscontrata in ogni epoca e cultura. Il suo tasso d'incidenza per un'unità di popolazione, in un dato periodo di tempo, è del 15-25% dei casi all'anno per 100.000 abitanti. Mentre il tasso di prevalenza varia tra lo 0,6% e lo 0,8%. Nel 75% dei casi l'esordio avviene in età giovanile (tra i 15 e i 35). Dopo i 35 anni sembra più frequente nella donna che nell'uomo. Alcuni studi dimostrano che non esistono differenze nella distribuzione tra i sessi; altri, invece, sostengono una maggiore prevalenza nell'uomo. I pazienti sono spesso non coniugati, o se lo sono hanno maggiori probabilità di divorziare. Si evidenzia una maggioranza del disturbo nelle classi socio-economiche più basse e tra gli individui con un livello d'istruzione inferiore. Questo potrebbe essere attribuito a quel fenomeno descritto dagli autori inglesi come "downdrift", conseguente alla malattia.

Eziologia [modifica]
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Gli psicologi e gli psichiatri sono ormai concordi nell'attribuire la causa di questo disturbo a un complesso mix di fattori genetico - biologico - psicologici. Un aumento della produzione della dopamina sembra giocare un ruolo chiave nell'eziologia di questa sindrome tanto che è stata chiamata in causa l'ipotesi dopaminergica: i neuroni dopaminergici dell'area tegmentale ventrale scaricano molta più dopamina sui neuroni gabaergici situati nel sistema mesocorticale (corteccia prefrontale) e nel sistema mesolimbico (nucleo striato ventrale).Nel primo caso essendo presente sulla membrana post sinaptica dei neuroni gabaergici il recettore D1 per la dopamina si ha una iperattivazione di quest'ultimi i quali scaricando il neurotrasmettitore GABA sui neuroni glutammatergici porta ad una inibizione di quest'ultimi con conseguente rallentamento dell'attività prefrontale e comparsa dei classici sintomi negativi. Nel secondo caso essendo presente sulla membrana post sinaptica dei neuroni gabaergici il recettore D2 per la dopamina si ha una inibizione dell'attività gabaergica lasciando in questo modo il sistema limbico disinibito che porta alla comparsa dei sintomi positivi della schizofrenia. Nella popolazione cosiddetta sana la probabilità di sviluppare ex novo la schizofrenia si avvicina all' 1% del campione. Infine, non sono da sottovalutare le esperienze soggettive e il contesto familiare in cui il paziente affetto da schizofrenia viene allevato e in cui vive, poiché è dimostrato che l'ambiente è determinante nello sviluppo della malattia.

Ipotesi alternative in corso di studio [modifica]
Tra le ipotesi delle cause fisiopatologiche della schizofrenia vi è un deficit e/o alterata funzione dell'acido folico che comporta:

alterazioni della metilazione del DNA [4] [5],
anormalità nella trasmissione glutaminergica [6] [7],
alterazioni della funzione mitocondriale [8] [9],
deficit di folati [10] [11],
iperomocisteinemia materna [12].
Una recente ricerca ricerca indica una correlazione tra l'aumento di IL-6 e TNF-α con i livelli di omocisteina patologici dovuti alla mutazione genica C577>T dell'enzima MTHFR [13].

Goff, et al. 2004 mettono in relazione la comparsa della sintomatologia schizofrenica con un deficit di attività della glutamato carbossipeptidasi II (GCPII), enzima chiave per l'assorbimento dell'acido folico [14]. Mentre, un gruppo di ricerca del Massachusetts General Hospital and Harvard Medical School, di Boston, mette in relazione i sintomi negativi della schizofrenia con il deficit di acido folico dovuto al deficit dell'enzima MTHFR [15].

L'uso dell'acido folico nell'ambito della terapia complementare e alternativa (CAM), sembra avere un ruolo definito e interessante, certamente meritevole di ulteriori sviluppi di ricerca [16].

Esordio e decorso [modifica]
La schizofrenia colpisce in media più frequentemente soggetti nella tarda adolescenza e nella prima fase dell'età adulta, ma alcune forme colpiscono prevalentemente persone adulte o di mezza età. I sintomi si manifestano generalmente prima negli uomini che nelle donne, anche se vi sono anche qui specifiche casistiche di incidenza femminile, ad esempio la schizofrenia catatonica "post-partum".

Il decorso della schizofrenia è considerato dalla maggior parte degli studiosi tendenzialmente cronico, con l'alternanza di periodi di acuzie e di remissione dei sintomi. Solo in rari casi è stata osservata la scomparsa dei sintomi; la frequenza e la durata delle esacerbazioni acute successive al primo episodio non sono prevedibili. Le situazioni di stress o l’abuso di sostanze possono causare la riacutizzazione (Linszen, 1994). I sintomi che precedono la riacutizzazione includono: disforia, isolamento, disturbi del sonno, ansia, idee di riferimento (Herz, 1985). Va pur detto che in molti casi la cronicità della malattia è solo presunta, essendo basata su dati clinici ed epidemiologici parziali. In assenza di una periodica catamnesi, i casi di guarigione sfuggono all’osservazione.

Decorso favorevole, remissioni più frequenti e prognosi migliore sono più probabili negli esordi acuti e floridi; scadenti capacità intellettive e livello socio-ambientale basso, sono elementi prognostici sfavorevoli; ogni qualsivoglia elemento deficitario significa decorso sfavorevole, remissioni meno probabili e prognosi peggiore.

La maggior parte dei soggetti che sviluppano il Disturbo perdono il posto di lavoro, oppure interrompono gli studi e riducono al minimo i contatti sociali
I soggetti che sviluppano il Disturbo provano livelli molto alti di sofferenza
Il 10% circa di loro si suicida
Il 75% circa di coloro che sviluppano il Disturbo viene preso in carico in maniera pressoché definitiva dai Servizi Psichiatrici nel giro di pochi anni dopo l’esordio
Inoltre il decorso della malattia è influenzato dalla scarsa flessibilità delle risposte terapeutiche e dalla ardua integrazione relazionale e sociale in conseguenza dello stigma. Le associazioni ideiche di alcune persone sono diverse dall’ordinario, tendono alla ‘divergenza’, alla estensione interpretativa e fantastica, piuttosto che alla convergenza del pensiero logico ‘adulto’, ma sono potenzialmente generatrici di espressioni creative. Queste funzioni mentali ‘speciali’, in situazioni esistenziali ad alto livello di stress e di spiacevolezza affettiva, favoriscono l’insorgenza della malattia. Esse richiederebbero risposte ‘straordinarie’ come la sperimentazione guidata di nuovi orizzonti ‘operativi’ piuttosto che la chiusura di porte e finestre.[senza fonte]

Periodo di stato [modifica]
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La schizofrenia presenta un quadro clinico molto complesso, caratterizzato da:

Disturbi della forma del pensiero [modifica]
Alterazioni del flusso idetico fino alla fuga delle idee e all'incoerenza. Esistono vari disturbi formali del pensiero:

Accelerazione: aumenta la velocità associativa, aumento della produzione verbale, nei casi più estremi fuga delle idee.
Rallentamento: contrario dell'accelerazione, diminuzione della velocità associativa e del contenuto idetico, nei casi estremi, arresto del pensiero
Deragliamento: perdere il filo del discorso passando da un argomento all'altro
Tangenzialità: risposte collegate ad una domanda in modo obliquo oppure completamente scollegate
Illogicità
Ridondanza procedurale
Neologismi: utilizzo di termini coniati ex novo per indicare concetti del tutto personali
Concretismo: incapacità di fare astrazione e ragionare su cose astratte come fede, famiglia, stato. Tendono a far riferimento sempre a cose concrete. Incapacità di interpretare proverbi o modi di dire
Disturbi del contenuto del pensiero [modifica]
Il delirio: convincimento derivante da un abnorme errore di giudizio, impermeabile alla critica, spesso a contenuto bizzarro, talvolta sostenuto da allucinazioni uditive. Corrisponde ad un modello mentale della realtà svantaggioso, dal momento che le decisioni prese in base ad un delirio conducono a comportamenti inadeguati e quindi ad un adattamento di livello inferiore. Il delirio, per essere diagnosticato come tale, deve essere fermamente sostenuto dal soggetto delirante, anche se la realtà e gli altri soggetti ne dimostrano la falsità, è assolutamente immodificabile. Non viene considerato dal soggetto come patologico, perché è assolutamente uguale alle altre idee. Totale mancanza di critica. I contenuti del delirio possono essere vari. Abbiamo deliri di:

Persecuzione
Riferimento
Gelosia
Nichilistici
Controllo
Ipocondriaci
Religiosi
Grandezza
Disturbi dell'affettività [modifica]
I disturbi dell'affettività comprendono:

Atimia: apparente mancanza di risonanza affettiva del soggetto verso se stesso e verso gli altri;
Labilità affettiva: cioè passaggio repentino dalla gioia alla rabbia o alla tristezza;
Incongruenza affettiva: per cui le manifestazioni affettive non risultano appropriate fino alla paratimia, in cui le manifestazioni affettive sono di segno opposto rispetto a quelle che le circostanze giustificherebbero (es. ilarità di fronte a una notizia tragica);
Ambivalenza affettiva: ossia l'attribuzione di affetti opposti e contrastanti, come ad esempio amore/odio, nei confronti di un'altra persona, solitamente un genitore o un altro familiare.
Disturbi della percezione [modifica]
Sono rappresentati da allucinazioni, ovvero percezioni senza oggetto, che possono essere:

Uditive caratterizzate da voci udite dal paziente, generalmente esse hanno caratteristiche minacciose e allusive verso il paziente stesso, fino ad imporgli di compiere determinate azioni (allucinazioni imperative) con pericolo in alcuni casi di suicidio, oppure voci udite dal paziente che conversano tra loro (colloquio di voci), senza rivolgersi a lui. Le voci possono anche parlare tra di loro sul paziente.
Visive rare, solitamente causate dall'abuso di sostanze.
Olfattive ancora più rare delle visive, spesso sono l'effetto di tumori cerebrali
Disturbi degli istinti [modifica]
Sono riferiti al disturbo del controllo degli impulsi, quale incapacità di resistere ad un impulso o ad un desiderio che si presenta come impellente ed irrefrenabile. Possono essere identificati in:[17] [18]

Cleptomania (bisogno patologico e irrefrenabile di rubare).
Disturbo esplosivo intermittente (comprende una varia gamma di impulsi aggressivi e violenti nei confronti di persone o cose).
Gioco d'azzardo patologico (compulsione ossessiva al gioco d'azzardo).
Piromania (produrre incendi con intenzionalità).
Tricotillomania (insopprimibile azione di strapparsi capelli o peli del corpo).
Disturbi dell'azione [modifica]
Sono classificabili in tre categorie:

Immobilismo - acinesia
Perseverazioni
Afinalismo
Disturbi della sessualità [modifica]
In questa sfera la persona schizofrenica incontra molte difficoltà; di conseguenza, così come avrà problemi nel fare amicizia, avrà anche molti problemi nel trovare un partner stabile con cui avere un rapporto sessuale soddisfacente. Per questo spesso alcuni pazienti schizofrenici vivono una vita sessuale promiscua, avendo rapporti occasionali con più persone. Molto spesso invece capita che il malato si fermi a una sessualità tipicamente adolescenziale, facendo quindi ricorso alla masturbazione. Altre volte invece la persona si lamenta della caduta delle sue capacità sessuali, ma si tratta quasi sempre di un effetto collaterale degli antipsicotici.

Terapia [modifica]
La terapia può essere effettuata con farmaci neurolettici (antipsicotici), i quali agiscono soprattutto sui deliri e sulle allucinazioni, diminuendo il senso di angoscia e le reazioni aggressive. Alcuni antipsicotici specifici possono essere d'ausilio anche in una moderata riduzione dei sintomi negativi. Antipsicotici atipici, o di nuova generazione, sono: la olanzapina, la clozapina, il risperidone, lo ziprasidone, la quetiapina, ed i recenti aripiprazolo ed amisulpiride.

Tra le terapie farmacologiche di supporto, recenti lavori scientifici confermano un ruolo per l'assunzione di acido folico come precursore chiave per la sintesi dei principali mediatori chimici della patologia psichiatrica [4] [5]; nonché come modulatore delle anormalità nella trasmissione glutaminergica [6] [7], e nelle frequenti alterazioni della funzione mitocondriale presenti in corso di schizofrenia [8] [9]. Infine, cosa ormai nota per la correzione dei deficit dei folati presenti in corso di schizofrenia [10] [11]

È indicata anche la psicoterapia, che può coinvolgere o meno familiari e conoscenti, allo scopo di individuare eventuali difficoltà relazionali col malato e gestire il suo isolamento. Inoltre la psicoterapia può aiutare il paziente a contestualizzare il problema e le risposte dell'ambiente, rendendolo maggiormente autoconsapevole, facilitando il contatto di realtà e rinforzando l' io.

Le ultime ricerche ed esperienze sia in campo psichiatrico che psicoterapico dimostrano che un approccio integrato (farmacologico + psicoterapeutico) ottiene un controllo migliore della patologia. È stato ipotizzato che potrebbero a volte risultare utili anche tecniche come il training autogeno, tutte le tecniche di rilassamento muscolare e respiratorio, lo yoga e la meditazione (ma solo a livello complementare, e sempre sotto espressa indicazione psichiatrica).[senza fonte]

Le terapie del passato, come le applicazioni elettroconvulsivanti (elettroshock) e l'insulinoterapia, non hanno mai dato risultati apprezzabili e sono sempre meno impiegate. Va detto che la TEC (terapia elettroconvulsivante) viene ancora oggi utilizzata nelle forme particolarmente resistenti ai farmaci, sebbene in condizioni molto più controllate di quanto non si facesse in passato.

I principali componenti per il trattamento della schizofrenia sono tre:

Farmaci, per alleviare i sintomi e prevenire le ricadute.
Interventi educativi e psicosociali, per aiutare i pazienti e le loro famiglie a risolvere i problemi, confrontarsi con gli stress, rapportarsi con la malattia e le sue complicanze, ed aiutare a prevenire le ricadute.
Riabilitazione sociale, per aiutare i pazienti a reintegrarsi nella comunità e riguadagnare le capacità sociali ed occupazionali.
Note [modifica]
^ Okasha, A., Okasha, T. (2000) Notes on mental disorders in Pharaonic Egypt History of Psychiatry, 11: 413-424
^ Heinrichs RW "Historical origins of schizophrenia: two early madmen and their illness", pubbl. su "J Hist Behav Sci", volume=39, pag.349–363, 2003, pmid=14601041
^ "NGF e schizofrenia", di Angela Iannitelli, pubbl. su "Le Scienze", num. 369, pag.84-89
^ a b (EN) .Feng J, Fan G. The role of DNA methylation in the central nervous system and neuropsychiatric disorders. Int Rev Neurobiol. 2009;89:67-84. Review. PMID 19900616
^ a b (EN) . Muntjewerff JW, Blom HJ. Aberrant folate status in schizophrenic patients: what is the evidence? Prog Neuropsychopharmacol Biol Psychiatry. 2005 Sep;29(7):1133-9. Review. PMID 16111796
^ a b (EN) .Fallgatter AJ, et al., DTNBP1 (dysbindin) gene variants modulate prefrontal brain function in schizophrenic patients - support for the glutamate hypothesis of schizophrenias. Genes Brain Behav. 2010 Feb 17. [Epub ahead of print] PMID 20180862
^ a b (EN) .Kiss T, Hoffmann WE, Hajós M.Delta oscillation and short-term plasticity in the rat medial prefrontal cortex: modelling NMDA hypofunction of schizophrenia.Int J Neuropsychopharmacol. 2010 Mar 25:1-14. [Epub ahead of print] PMID 20334724
^ a b (EN) . Ben-Shachar D.T he interplay between mitochondrial complex I, dopamine and Sp1 in schizophrenia. J Neural Transm. 2009 Nov;116(11):1383-96. PMID 19784753
^ a b (EN) . Rollins B, et al.,Mitochondrial variants in schizophrenia, bipolar disorder, and major depressive disorder. PLoS One. 2009;4(3):e4913. Epub 2009 Mar 17. PMID 19290059
^ a b (EN) . Haidemenos A, et al.,Plasma homocysteine, folate and B12 in chronic schizophrenia. Prog Neuropsychopharmacol Biol Psychiatry. 2007 Aug 15;31(6):1289-96. Epub 2007 Jun 2. PMID 17597277
^ a b (EN) . Petronijević ND, et al., Plasma homocysteine levels in young male patients in the exacerbation and remission phase of schizophrenia. Prog Neuropsychopharmacol Biol Psychiatry. 2008 Dec 12;32(8):1921-6. Epub 2008 Sep 15. PMID 18824063
^ (EN) . Zammit S, et al., Schizophrenia and neural tube defects: comparisons from an epidemiological perspective. Schizophr Bull. 2007 Jul;33(4):853-8. Epub 2006 Sep 15. PMID 16980574
^ (EN) . García-Miss MD, et al., Folate, homocysteine, interleukin-6, and tumor necrosis factor alfa levels, but not the methylenetetrahydrofolate reductase C677T polymorphism, are risk factors for schizophrenia.J Psychiatr Res. 2009 Nov 23. [Epub ahead of print]. PMID 19939410
^ (EN) . Goff D.C. , et al., Folate, Homocysteine, and Negative Symptoms in Schizophrenia. Am J Psychiatry 2004; 161:1705–1708. PMID 15337665
^ (EN) . Roffman JL,et al.,Contribution of methylenetetrahydrofolate reductase (MTHFR) polymorphisms to negative symptoms in schizophrenia. Biol Psychiatry. 2008 Jan 1;63(1):42-8. Epub 2007 Jun 1. PMID 17543893
^ (EN) . Werneke U, Turner T, Priebe S.Complementary medicines in psychiatry: review of effectiveness and safety.Br J Psychiatry. 2006 Feb;188:109-21. .PMID 16449696
^ American Psychiatric Association (2000) [[DSM-IV]: Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali.
^ Organizzazione mondiale della sanità (2007) ICD-10: International Classification of Diseases.
Bibliografia [modifica]
Richard Bentall, Madness explained psychosis and human nature, Londra, Allen Lane, 2003.
Voci correlate [modifica]
Eugen Bleuler
Emil Kraepelin
Catalessia
Demenza
Dissociazione (psicologia)
Psicosi
Disfrenia tardiva
Lobotomia
Esperimento cerchio-ellisse di Pavlov
Dacnomania
Ronald Laing
Tiotixene
John Nash
28 di 9422 - 05/12/2010 14:53
protomega N° messaggi: 23994 - Iscritto da: 02/3/2007
Psicologia dell'invecchiamento


« Un uomo incivilito, il quale partecipa all'arricchimento della civiltà in idee, conoscenze, problemi, può diventare "stanco della vita" ma non sazio [...] dunque la sua morte è per lui un accadimento assurdo. Ed essendo la morte priva di senso, lo è anche la vita civile come tale, in quanto, appunto con la sua assurda "progressività", fa della morte un assurdo. »
(Max Weber, Il lavoro intellettuale come professione, Einaudi, Torino, 1971)

La psicologia dell'invecchiamento è una branca della psicologia che si occupa sia dei problemi psicologici dell'anziano, sia del processo di invecchiamento da un punto di vista psicologico e neuropsicologico.

La persona anziana (già di per sé oggigiorno difficile da definire) può presentare problematiche che esplodono nella terza età, ma che prima erano latenti, oppure disagi peculiari di questo periodo della vita, dovuti a vari motivi: mancata o parziale elaborazione del lutto per la morte del compagno/a, conseguente solitudine, mancanza di motivazioni per andare avanti, decadimento fisico, allontanamento dalla vita sociale, esclusione, etc., oltre ad una serie di caratteristiche psicopatologiche che possono acuirsi a questa età: avarizia, sospettosità, puntigliosità, etc.

Ricerche biomediche [modifica]
Il problema è posto come ricerca alla considerazione che le problematiche riguardanti l'invecchiamento, siano un effetto secondario alle condizioni di vita oppure siano esse stesse un risultato genetico. Per esempio, per Orgel l'invecchiamento è una causa ad errori genetici presenti nel DNA. Pur non escludendo fattori di intercorrelazione fra le due ipotesi di ricerca.

Ricerche psicosociali [modifica]
Le ricerche psicosociali vertono essenzialmente in ambito psicofisico, sociale, psichico. Nell'ambiente psicofisico si sottolineano le modificazioni dell'aspetto e le ripercussioni sulla psiche. Nell'area sociale, viene curata maggiormente il fatto che la società stessa in cui l'anziano vive tende a relegarlo in altri ambiti fino ad allora non conosciuti, in primis l'allontanamento dal luogo di lavoro mediante il pensionamento. Ed infine, per quel che concerne la modificazione della psiche dell'anziano, si è soliti sottolineare la depressione senile come effetto dell'età sulla mente.

I risultati di queste tre fonti di informazioni, portano ad indicare che in breve tempo l'adulto si vede in una fase di trasformazione assai rapida ed alla quale egli non è preparato. In essa vi sono fattori assai soliti, quali: il disgregarsi del gruppo sociale al quale aveva investito la sua affettività, figli che ormai hanno una vita propria, perdita di congiunti ed amici, diminuzione del salario, notevole aumento del tempo libero senza una rete di riferimento che precedentemente vi era nel luogo lavorativo.

A questo va aggiunto che nella cultura occidentale, sono valori assai radicati, l'esteriorità corporea, la salute che a volte arriva a dei veri eccessi (salutismo), tutto questo non prepara l'adulto all'anziano che sarà. Difatti le reazioni tipiche sono o la prevaricazione o la rassegnazione. La prima soluzione è sempre meno praticabile per l'avanzare dell'età e il frantumarsi dei luoghi socio-affettivi, la seconda porta all'attesa della morte o a rifugiarsi in fantasie che talvolta sfociano in stati deliranti.

Ricerche psichiatriche [modifica]
Le ricerche psichiatriche si occupano dei disturbi psichici nell'anziano e, in quanto finalizzate ad un oggetto di studio così specifico, si formano autonomamente in psichiatria geriatrica. Di fatto negli anziani le cause organiche portano assai spesso alla demenza. Il carattere senile è così marcato nel disturbo stesso che spesso si parla di schizofrenia senile, di depressione senile, e così via.

Nella vecchiaia si riscontrano:

riduzione della memoria a breve termine, il numero delle informazioni immagazzinate diminuisce (normalmente sono 7 ± 2);
tempi di reazioni allungati, riconoscere uno stimolo, selezionare una risposta da mettere in atto ed eseguirla risulta un compito sempre più gravoso;
irrigidimento delle membra e della psiche, ove vi è sempre più difficoltà a disimparare vecchie abitudini e a impararne delle nuove;
declino dell'intelligenza, è da imputarsi non tanto al progredire dell'età di per sè quanto ad un non allenamento.
29 di 9422 - 05/12/2010 14:57
protomega N° messaggi: 23994 - Iscritto da: 02/3/2007
Sensibilità (psicologia)


La sensibilità è una condizione psicologica spesso provocata dalla stimolazione dei sentimenti che porta a reazioni di tipo emotivo. In genere si può parlare di sensibilità emotiva o psicologica - o di insensibilità in caso contrario - quando la mente umana reagisce a degli stimoli che si ricollegano a fatti, cose, avvenimenti e discorsi che possono toccare l'emotività di una persona che possono riuscire dal comune senso del pudore o della normalità, spesso se si tratta di argomenti spesso imbarazzanti o scabrosi.

Vi sono alcune zone del nostro cervello che reagiscono a degli impulsi esterni in seguito ad avere ascoltato, visto o letto eventi o cose che spesso suscitano scalpore, imbarazzo o scandalo, e che si ripercuotono su tutto il resto del corpo, spesso mostrando degli evidenti disturbi somatici, che nei soggetti meno disposti si verifica con senso di tristezza, mentre in quelli maggiormente disposti mostrano segni di ansia, agitazione o forte disgusto.

Spesso quando si parla di persone sensibili, si fa riferimento anche a persone facilmente impressionabili o suggestionabili, facilmente toccabili nel proprio animo, che appunto mostrano comportamenti che rientrano nella sfera del lecito - da non confondere con soggetti facilmente scandalizzabili - talvolta in grado di coinvolgere altre persone se anche esse vengono convinte a comportarsi come tale. (non a caso si parla di sensibilizzazione di menti).

30 di 9422 - 05/12/2010 15:03
protomega N° messaggi: 23994 - Iscritto da: 02/3/2007
Frustrazione (psicologia)


Con il termine frustrazione s'intende quello stato psicologico derivante da un mancato o inibito bisogno dovuto a cause esterne o a cause endogene. Lo stato di frustrazione è quello in cui ci si viene a trovare quando si è bloccati o impediti nel soddisfacimento di un proprio bisogno o desiderio.

Cause [modifica]
I blocchi o gli impedimenti alla realizzazione di una necessità, possono derivare da fattori ambientali, sociali o endogeni.

Cause ambientali: sono gli ostacoli dovuti all'ambiente fisico geografico che ci circonda Esempio, l'assenza di ombra nel deserto è un ostacolo al suo attraversamento, la lontananza di un luogo impedisce la sua frequentazione continua; il rumore, la mancanza di igiene, il freddo, la cattiva illuminazione dell'ambiente di lavoro, possono essere causa di frustrazione ambientale.
Cause sociali: più difficili da accettare delle precedenti, sono gli ostacoli dati dalle regole sociali, sia di interazione con i propri superiori in ambiente lavorativo, sia di iterazione tra minoranze etniche o religiose. Es.: Il capo ufficio che non si interessa delle nostre richieste, la situazione degli italiani sbarcati in America.
Cause endogene: sono le più difficili da accettare, sono dovute al conflitto tra due bisogni della persona. Es.: nell'adolescente il conflitto tra autonomia e protezione familiare.
Le cause di frustrazione ambientali e sociali sono studiate anche da altre discipline, geografia, ingegneria, sociologia, le cause endogene sono più propriamente studiate dalla psicologia poiché sono derivate dalla complessità interiore dell'individuo che spesso si trova nella situazione conflittuale secondo cui per soddisfare un bisogno deve rinunciare a un altro.

Teorie e strumenti di misura [modifica]
Una delle teorie che si è occupata del rapporto tra frustrazione e aggressività è quella di Dollard[1] in cui si afferma che alla base di un comportamento aggressivo (risposta) vi è sempre un evento frustrante (stimolo).

Uno strumento di misura della frustrazione è il Picture Frustration Study di Rosenzweig[2]. È un test semi-proiettivo, formato da 24 vignette che illustrano altrettante situazioni in cui compare una figura frustrante e una frustrata. Il test, nelle tre forme per bambini, adolescenti e adulti, evidenzia due atteggiamenti, quale risposta indotta dall'identificazione con la figura frustrata:

la direzione dell'aggressività (rivolta all'esterno, all'interno o repressa);
il tipo di aggressività (prevalente e tipica del soggetto).
31 di 9422 - Modificato il 05/12/2010 15:46
protomega N° messaggi: 23994 - Iscritto da: 02/3/2007
Accidia


L'accidia, o acedia (lat. acedia, ingl. sloth, franc. accidie, ted. acedie) è l'avversione all'operare, mista a noia e indifferenza.

L'etimologia classica fa derivare il termine dal greco ἀ (alfa privativo = senza) + κῆδος (=dolore)[1], sinonimo di indolenza, per il tramite del latino tardo acedia[1].

Nell'antica Grecia il termine acedia (ἀκηδία) indicava, letteralmente, lo stato inerte della mancanza di dolore e cura[1], l'indifferenza e quindi la tristezza e la malinconia[1].

Il termine fu ripreso in età medievale, quale concetto della teologia morale, a indicare il torpore malinconico e l'inerzia che prendeva coloro che erano dediti a vita contemplativa[2][1].

Tommaso d'Aquino la definiva come il «rattristarsi del bene divino», in grado di indurre inerzia nell'agire il bene divino[3][2].

Il senso del termine è in stretto rapporto con quello della noia, con la quale l'accidia condivide una medesima condizione originaria determinata dalla vita contemplativa: entrambe nascono da uno stato di soddisfazione e non, si badi bene, di bisogno[2].

Il significato del termine accidia è oggi vago, ma resta fortemente connotato, nelle culture cristiane, di implicazioni moralistiche e negative. Nel cattolicesimo l'accidia è uno dei sette peccati capitali ed è costituito dall'indolenza nell'operare il bene

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Lessico [modifica]
Jacopone da Todi ne descriveva così gli effetti:

« L'Accidia una freddura,
ce reca senza mesura,
posta 'n estrema paura,
co la mente alienata »
(Jacopone da Todi, Laudi - Trattato e Detti, a cura di Franca Ageno, Firenze, Le Monnier, 1953)

Dante, che nel Convivio sembra considerarla un "vizio per difetto dell'ira", nel VII canto della Commedia pone gli accidiosi nella palude Stigia, insieme con gli iracondi, mentre nel Purgatorio li colloca nel IV girone (Canto XVII), a correre frettolosamente per la cornice, gridando esempi di sollecitudine e di accidia punita.

Nel lessico contemporaneo il lemma accidia / accidioso:

è usato come sinonimo di noia e vita depressa;
indica lo scoraggiamento, l'abbattimento e la stanchezza guardati dall'angolo visuale di chi pensa che si debba sempre fare, desiderare, meritare, conquistare qualcosa (punto di vista che è tipico soprattutto del giudicante, ma può essere anche fatto proprio dal portatore del sentimento, quando se ne ritrae disgustato e spaventato);
rinvia, più che a questioni etiche, a questioni psicologiche, indicanti un'anomalia della volontà,
è correntemente considerato, piuttosto che un peccato, un sintomo di depressione.
Banalizzato, accidioso indica anche semplicemente una personalità particolarmente incline all'ozio, che è considerato un peccato capitale anche dalla moderna società desacralizzata, in quanto il soggetto che ne è colpito produce e consuma meno di quanto "dovrebbe", e si configura, da questo punto di vista, come un individuo socialmente pericoloso, in quanto attore ed esempio di disordine.

Iconografia [modifica]
Jacques Callot, Accidia (1620)I simboli che rappresentano l'accidia sono normalmente un uomo addormentato (che quindi non pecca, ma neppure pratica la fede) o lavori eseguiti a metà.

La più famosa rappresentazione di questo stato d'animo è la Melencolia I, di Dürer, che lo collega alla tristezza, ma anche al calcolo, alla riflessione, all'ozio creativo.

32 di 9422 - 05/12/2010 15:15
remolcador N° messaggi: 8795 - Iscritto da: 03/5/2009
Hihihi, ogni riferimento a fatti o persone reali è del tutto casuale!
33 di 9422 - 05/12/2010 15:21
protomega N° messaggi: 23994 - Iscritto da: 02/3/2007
ssssssssssssshhhhhhhhhhhhhhhhhhhhh....
non ridere che ci sentono......
34 di 9422 - 05/12/2010 16:02
protomega N° messaggi: 23994 - Iscritto da: 02/3/2007
Raffaele Roscioli

Raffaele Roscioli nasce a Giulianova il 14 aprile 1861. Rampollo di una delle famiglie più abbienti della città (un Giovan Domenico Roscioli compare tra i decurioni nella prima metà dell’800) e dove certo non mancano i necessari stimoli culturali. Sua madre è Secondina Tarquini, suo padre è quel don Tommaso (omonimo dello zio, cappellano-curato della chiesa di San Flaviano nel primo decennio dell’Ottocento), medico-chirurgo stimatissimo e dotato, a giudizio di Vincenzo Bindi, di «ingegno versatile e di varia cultura», cui non difettano né valentia professionale (sintomatica è l’amicizia intrattenuta con il celebre clinico abruzzese Salvatore Tommasi), né passione civile, avendo egli partecipato attivamente - e non in posizione subalterna - alle vicende politiche del periodo preunitario (ritroviamo Tommaso, infatti, a fianco dell’altro giuliese Raffaele Cavarocchi nella sommossa di Teramo del 1848, oltre che al centro di una fitta rete di rapporti intrattenuti con Giuseppe Devincenzi e Silvio Spaventa) ed alla vita cittadina (è nella deputazione incaricata di ricevere nel 1857 Leopoldo Borbone, sarà ufficiale nella Guardia Nazionale. collaboratore del sindaco Gaetano Ciaffardoni, membro della giunta municipale formata il 19 dicembre 1861 ed uno dei primi presidenti della Congregazione di Carità. A lui, peraltro, si attribuisce il merito di aver fondato l’istituto femminile di S. Rocco).
Compiuti gli studi ginnasiali nel seminario di Atri e quelli liceali in Teramo, Raffaele Roscioli si iscrive all’Università di Napoli, meta allora obbligata per le intelligenze abruzzesi, laureandosi precocemente.
Nel 1884 il ventitreenne dottor Roscioli inizia la sua brillante carriera con la nomina ad assistere, per concorso, presso il Frenocomio di Reggio Emilia - allora, il più rinomato centro di studi psichiatrici della penisola - sotto la guida di quell’Augusto Tamburini considerato uno dei rinnovatori, insieme con Cesare Castiglioni, Serafino Buffi, Carlo Livi, Gaspare Virgilio e Cesare Lombroso (tutti luminari, questi, che in più occasioni ebbero modo di esprimere apprezzamento nei confronti del Nostro), dell’assistenza psichiatrica in Italia. In questo stesso anno vedono la luce in rapida sequenza presso l’editore Enrico Detken di Napoli, due sue monografie, le prime di una bibliografia che diverrà, in prosieguo di tempo, copiosissima: Della neurotinite e dell’atrofia del nervo ottico in alcune malattie cerebro-spinali e Contribuzione allo studio della paralisi spinale spastica. A queste seguono, l’anno successivo, un interessante saggio relativo alla morfologia cellulare delle circonvoluzioni frontali, apparso nella prestigiosa “Rivista sperimentale di freniatria e medicina legale”, e, in volume, Due casi di lesioni dei peduncoli celebrali, per conto della tipografia del Manicomio lnterprovinciale “Vittorio Emanuele II” di Nocera Inferiore. Sarà proprio al “Vittorio Emanuele” di Nocera Inferiore - vera fucina di tanti futuri direttori e certamente il miglior Istituto del Mezzogiorno continentale, per molto tempo rimasto tale anche per la rete di rapporti intrattenuti con l’Università di Napoli - che il brillante Raffaele Roscioli, sempre più vocato a “magnifiche sorti e progressive’, si trasferirà nel 1886 dopo aver superato l’ennesimo concorso a medico ordinario, classificandosi primo assoluto.
La sua eccezionale preparazione, la sua operosità ed il suo impegno pubblicistico notevole (solo nel periodo compreso tra il 1886 ed il 1890 vedono la luce ben otto nuove monografie scientifiche) portano presto il Roscioli, per quanto giovane, ad essere considerato uno tra gli alienisti più noti d’Italia ed uno tra i più apprezzati nella pratica frenocomiale, tanto da venir nominato nel 1891 - lo stesso anno nel quale partecipa, presentando un interessante studio clinico e statistico sulla paralisi progressiva nell’Italia meridionale, al VII Congresso Freniatrico - Direttore del Manicomio “Fleurent” di Napoli, la rinomatissima struttura privata di Capodichino. La venuta del Roscioli a Teramo data all’agosto del 1892, quando, dietro sollecitazione dei colleghi abruzzesi, partecipa e brillantemente vince il posto messo a concorso di direttore del locale Manicomio, il primo e per tanto tempo ancora unico presidio del genere in Abruzzo, sorto - giova rammentano - nel 1881, su determinante impulso dell’allora presidente della Congregazione di Carità Berardo Costantini, come reparto dell’Ospedale.
Sarà proprio sotto la direzione Roscioli che quella struttura assurgerà, in un lasso di tempo nemmeno troppo esteso, a durevole fama, allineandosi ad altre Istituzioni consimili più “blasonate” ed anzi divenendo, insieme con il Manicomio di Anversa, l’approdo privilegiato di gran parte degli “alienati” dell’intero Sud continentale. Difatti - scrive in proposito un vero esperto come Fernando Galluppi - è proprio con Raffaele Roscioli che «inizia il lavoro scientifico specialistico condotto attraverso la puntuale osservazione dei ricoverati e la redazione delle loro storie cliniche. Ed a Teramo cominciano ad affluire malati dell’intera regione ed anche da Campobasso. Nel 1904 poi se ne aggiunge un primo nucleo proveniente da Roma, mentre prosegue la edificazione di nuovi fabbricati e comparti che prelude alla definitiva scissione del Manicomio dall’Ospedale», per l’autonomia logistica del quale, oltretutto, il Roscioli riuscirà a far acquistare dalla Congregazione il terreno ubicato sul colle in Fontana della Regina, dove in effetti la nuova struttura - come sognava il Roscioli, che tuttavia non farà in tempo a vedere - qualche tempo dopo sorgerà. Grazie dunque al Roscioli, il Manicomio di Teramo acquisisce non solo un pieno riconoscimento nel circuito scientifico nazionale (dai 185 ricoverati del 1892 si passa a 601 nel 1911), ma conosce anche - come apprendiamo da un puntuale saggio di Marco Quarchioni - una felice fase di trasformazione. Questa investe sia agli aspetti edilizi e le attività svolte (nel febbraio 1905 si inaugura la prima colonia agricola, destinata ad un grande sviluppo successivo; nel 1907 l’ingegnere Marcozzi mette mano, dietro sollecitazione del direttore, al primo di una lunga lista di progetti; nel 1910 viene aperto un Asilo speciale per alienati cronici e tranquilli e, sempre in quell’anno, si attiva per tali categorie di malati anche l’assistenza omo-familiare), sia quelli più propriamente professionali (il personale medico viene finalmente ben definito e si attesta sulle 5 unità stabili; si mette mano al primo regolamento interno utilizzando come modello quello di Arezzo; l’ergoterapia conosce una massiccia diffusione; prende il suo abbrivo la scuola professionale per infermieri con preparazione specifica, fiorente fino allo scoppio della prima guerra mondiale).
A questa felice temperie va ricondotta l’uscita nel 1893, per i tipi della teramana Bezzi e Appignani (la medesima impresa tipografia che proprio in quest’anno pubblica il volume Tre casi di pellagra nella provincia di Teramo, ennesimo lavoro scientifico del Roscioli. ma il primo relativo all’area geografica aprutina), del bimestrale “Cronaca del Manicomio di Teramo”. Attraverso questo periodico, per la struttura teramana indubbiamente rappresentativo di un’esperienza assolutamente nuova, il Roscioli (che ne sarà il direttore responsabile sino al 1909, coadiuvato da Cleto Pierrannunzi in veste di redattore) riuscirà ad attivare un proficuo dialogo scientifico tra gli operatori abruzzesi ed i colleghi di altre regioni, pubblicando informazioni e considerazioni statistiche, articoli di approfondimento, notizie sanitarie e persino resoconti criminologici.
Insomma, quello di Roscioli è un attivismo che fa compiere alla struttura da lui diretta un passaggio decisivo e storico e, indubbiamente, “prepara” ad uno splendido avvenire il Manicomio teramano, che conoscerà il suo momento di massimo prestigio con la direzione affidata a Marco Levi Bianchini. Purtroppo, però, quella che appare una non resistibile ascesa (alle numerose ed autorevoli attestazioni di stima tributate dal mondo scienfitico italiano fa pendant una bibliografia che si infoltisce di nuovi titoli, tre solo nell’anno 1892) viene bruscamente interrotta nel 1914, con la morte di Domenico, l’amatissimo Mimì, unico figlio maschio di Raffaele Roscioli, evento terribile, questo, che lo getta in uno stato di profonda costernazione. È lo stesso Umberto Biancone a ricordare attraverso un lungo articolo apparso nel giornale da lui diretto, “Il Risveglio”, nell’edizione 16 luglio 1916, che l’esimio professore «non seppe mai darsi pace» e che ogni «oggetto, ogni ricordo che gli rappresentasse davanti agli occhi la dolce figura del suo figliolo era per lui uno strazio; e correva ogni mese immancabilmente, con matematica precisione, a Giulianova, laggiù ove riposan le ossa giovanette, a deporre i fiori più belli della stagione, e quelli ancora più santi: i fiori del suo affetto».
Si tratta, sembra sin troppo evidente, di un dolore totale e profondissimo, che neanche l’affetto della moglie e delle figlie Elena, Bice, Secondina e Silvia riesce a lenire. Da qui a non molto il Roscioli verrà aggredito, L’11 giugno del 1916, da una terribile ed esiziale malattia. Alle 22.30 del 4 luglio di questo stesso anno, dopo una lancinante agonia, Raffaele Roscioli, come ricorda Umberto Biancone con bellissime espressioni che non possiamo fare a meno di riportare. «reclinò il bel capo, e stette gelido e muto».
Se ne andava uno tra i più illustri psichiatri d’Italia, un uomo che aveva speso la sua esistenza - sono ancora parole del Biancone - «tra lo studio e le opere buone, tra l’affetto per la scienza, e quello ancora più grande e santo, per la famiglia».


35 di 9422 - 05/12/2010 16:13
protomega N° messaggi: 23994 - Iscritto da: 02/3/2007
Antisemitismo e intolleranza
Inserito da Redazione in data 27 Gennaio 2006
Tag:GuerraReligione
Nel giorno della memoria, per non dimenticare gli orrori dell'Olocausto, pubblichiamo un articolo tratto dal sito Freesouls, scritto nel gennaio 2001, vale a dire prima di quell'11 settembre che ha risvegliato nell'occidente "cristiano" orgogliosi pruriti intolleranti e anti-libertari contro i diversi, gli infedeli, gli inferiori per cultura, religione e condizione sociale. Poiché si è fatto tanto parlare sull'inserimento di riferimenti alle radici cristiane nella futura Costituzione Europea, è bene sapere cosa sono queste radici e valutare, quindi, se sia proprio il caso di portarcele dietro in un'Europa laica e (ci auguriamo) libera.

Gennaio 2001

Antisemitismo e intolleranza
a cura di FREE SOULS

Dallo Zingarelli:

«Semita - da Sem, figlio di Noè, dall'ebraico Shem, con -ita. Chi appartiene ai popoli, collegati tra loro per nessi razziali, linguistici e culturali, abitanti in ampie zone del Medio Oriente, dell'Africa Settentrionale e dell'Etiopia, con fortissime radici culturali in tempi preistorici e storici».

«Antisemita. Chi, che è ostile nei confronti degli Ebrei».

«Intolleranza. Atteggiamento o comportamento di chi non ammette e cerca di reprimere manifestazioni di pensiero, di fede e simile diverse dalle proprie».

Nascita ed evoluzione dell'antisemitismo
[...] In Europa l'antisemitismo è un corollario del cristianesimo: non appena questo si fu affermato nell'Impero romano, i suoi portavoce si diedero a predicare contro gli ebrei, ricorrendo a condanne esplicite, di grande effetto retorico e cariche di emotività. L'impellente esigenza psicologica e teologica dei cristiani di differenziarsi dagli adepti alla religione dalla quale la loro si era distaccata si rinnovava a ogni generazione, perché gli ebrei persistevano nel rifiutare la rivelazione di Gesù, sfidando così, involontariamente, la certezza cristiana di quella rivelazione. Se gli ebrei, il popolo di Dio, rigettavano il Messia che Dio aveva loro promesso, doveva esserci qualcosa di poco chiaro: o il Messia era falso, oppure quel popolo, forse tentato dal diavolo in persona, aveva proprio perduto la retta via. Per i cristiani la prima ipotesi non era nemmeno da prendere in considerazione, e dunque optarono con tutto il cuore per la seconda. Gli ebrei erano ribelli alla religione in un mondo in cui religione e ordine morale si identificavano, e che considerava qualsiasi deviazione come una trasgressione grave. (Citato da "History and Hate: the Dimensions of Anti-Semitism" di Robert Chazan).

[...] Per i cristiani la loro religione era il superamento dell'ebraismo; dunque gli ebrei in quanto tali dovevano sparire dalla faccia della terra: dovevano diventare cristiani. E invece si rifiutavano caparbiamente di farlo. Cristiani ed ebrei si trovavano dunque a condividere un patrimonio comune - la cui parte più importante era la Bibbia ebraica, con le sue parole ispirate da Dio - del quale davano interpretazioni contrastanti. Di qui un inestinguibile antagonismo sul suo significato, sull'interpretazione della Bibbia e della parola di Dio, di tanti degli stessi testi sacri, antagonismo che incitava vieppiù i cristiani a denigrare gli ebrei, a impugnare la loro concezione di quel territorio sacro conteso. Se gli ebrei erano nel giusto, i cristiani erano nell'errore: l'interpretazione stessa dell'ordine sacro e dei suoi simboli, e dell'ordine morale che ne derivava, dipendeva dalla certezza che tutti i cristiani fossero convinti dell'errore degli ebrei. Scrive Bernard Glassman: «I chierici credevano che se il cristianesimo era in effetti la vera fede, e i suoi seguaci la nuova Israele, l'ebraismo andasse screditato agli occhi dei fedeli. Nei sermoni, nelle rappresentazioni teatrali, nella letteratura religiosa del Medioevo gli ebrei venivano spesso descritti come gli avversari della chiesa, coloro che fin dal tempo della Crocifissione costituivano una minaccia per i buoni cristiani».

Gli ebrei vennero così a rappresentare buona parte di tutto ciò che era antitetico all'ordine morale del mondo cristiano.

Un terzo motivo della costante ostilità dei cristiani, e del disprezzo autoindotto che riversavano sugli ebrei, è dato dalla convinzione assiomatica che essi fossero gli «uccisori di Cristo», e che responsabili della sua morte fossero non soltanto gli ebrei dell'epoca, ma quelli di ogni altro tempo. Gli ebrei contemporanei, infatti, rifiutavano Gesù come Messia e come figlio di Dio non meno dei loro antenati i quali, stando agli appassionati e indefessi insegnamenti cristiani, lo avevano ucciso. Assumendo questa posizione negativa, si rendevano tutti complici del delitto originato dal rifiuto degli antenati di riconoscere la divinità di Gesù. Gli ebrei erano dunque il simbolo degli uccisori di Cristo, approvavano, si credeva, quel delitto e anzi si riteneva che fossero capaci, avendone l'occasione, di ripeterlo. E dunque il loro continuo, quotidiano rifiuto di Gesù era un sacrilego atto di sfida, un guanto gettato apertamente, con sfacciato disprezzo, ai cristiani. (Citato da "History and Hate: the Dimensions of Anti-Semitism" di Robert Chazan).

Questa opinione degli ebrei, fondamentale nella teologia e nell'insegnamento cristiano fino all'Evo moderno, aveva già forma compiuta nel IV° secolo, quando la chiesa venne ufficializzata nel mondo romano. Giovanni Crisostomo, uno dei Padri della chiesa che esercitò influenza più a lungo, predicava in termini che sarebbero divenuti i ferri del mestiere dell'insegnamento e della retorica antiebraici, condannando gli ebrei a vivere in un'Europa cristiana che li disprezzava e li temeva: «Là dove si riuniscono gli uccisori di Cristo, si ride della Croce, si bestemmia Dio, si rinnega il Padre, si insulta il Figlio, si respinge la grazia dello Spirito santo... Se i riti ebraici fossero sacri e venerabili, allora il nostro modo di vivere sarebbe erroneo. Ma se è vero, come è vero, che la nostra via è giusta, la loro è falsa. Non parlo delle Scritture: lungi da me! Perché esse conducono a Cristo. Parlo della loro empietà e follia di oggi.» (Citato da "History and Hate: the Dimensions of Anti-Semitism" di Robert Chazan).

[...] Giovanni, teologo influente, non fu che un esempio precoce di quel rapporto di fondo del mondo cristiano con gli ebrei che si sarebbe perpetuato fino all'età moderna inoltrata. Occorre ancora una volta sottolineare che questa ostilità non appartiene alla categoria che conosciamo fin troppo bene, quella degli stereotipi e dei pregiudizi poco lusinghieri (che possono avere una forza tutt'altro che trascurabile) nutriti da un certo gruppo nei riguardi di un altro e finalizzati a rafforzare la fiducia in sé di chi li sostiene. La concezione cristiana degli ebrei, invece, era intessuta negli elementi costitutivi dell'ordine morale del cosmo e della società; quell'ordine che, per definizione, essi avversavano, portandolo alla rovina. Lo stesso essere cristiani comportava un'ostilità totale e viscerale nei confronti degli ebrei, così come del male e del diavolo: non sorprende che nel Medioevo si arrivasse a considerarli come agenti di entrambi.

[...] Per il mondo medioevale gli ebrei erano in posizione del tutto antitetica rispetto alla cristianità. La chiesa, sicura del controllo teologico e pratico che esercitava sulle potenze d'Europa, coltivava nondimeno aspirazioni totalitarie; alla sfida simbolica al proprio predominio che individuava negli ebrei, essa reagiva con una ferocia stemperata o acutizzata dalle condizioni contingenti. Alla particolare posizione che occupavano in quanto popolo reo insieme di aver rifiutato la rivelazione di Gesù e di averlo "ucciso" - anche se proprio loro avrebbero dovuto essere i primi a riconoscerlo e seguirlo come Messia - gli ebrei dovevano l'odio costante e profondo della chiesa, del clero e dei popoli d'Europa.

[...] Così voleva la logica dei Padri della chiesa, e quella che accompagnò l'antisemitismo nella sua graduale evoluzione verso il momento, nel XIII° secolo, in cui l'ebreo divenne sinonimo del diavolo. Grazie al controllo assoluto che esercitava sulla cosmologia e sulla morale in Europa, la chiesa diffuse tale idea per mezzo dei suoi portavoce, i vescovi, e soprattutto i parroci, creando una concezione universale e relativamente uniforme, panaeuropea, in cui gli ebrei, creature del demonio, finiscono per non far parte nemmeno dell'umanità. «Davvero dubito», dichiarava Pietro il Venerabile di Cluny, «che l'ebreo possa essere umano, poiché non si piega al ragionamento degli uomini, né si accontenta degli enunciati dell'autorità, divina o ebraica che sia».

L'odio per gli ebrei nell'Europa medioevale era tanto intenso, e tanto avulso dalla realtà, che ogni disastrosa evenienza poteva essere imputata al loro maligno operato. Gli ebrei rappresentavano tutto ciò che era discorde: di fronte a una calamità naturale o sociale dunque si reagiva automaticamente ricercandone la presunta origine ebraica. L'antisemitismo di Martin Lutero fu tanto feroce ed ebbe così vasta influenza da guadagnargli un posto d'onore nel pantheon della categoria, ma non gli valse a nulla presso la chiesa sua avversaria, che denunciò lui e i suoi seguaci come eretici ed ebrei. La logica di quelle fantastiche convinzioni era tale che, conclude Jeremy Cohen, «fu quasi inevitabile che la colpa della Peste nera ricadesse sugli ebrei, e molte delle loro comunità in Germania furono sterminate in modo totale e definitivo». Nel Medioevo le aggressioni e le espulsioni degli ebrei erano all'ordine del giorno, tanto che alla metà del Cinquecento i cristiani potevano dire di averli cacciati con la forza da buona parte dell'Europa occidentale.

Riguardo agli ebrei, il mondo moderno ha ereditato dal Medioevo, per citare Joshua Trachtenberg, «un odio tanto vasto e abissale da lasciarci senza fiato di fronte alla sua incomprensibilità». Nondimeno, non si tentava di ucciderli, perché la chiesa, sensibile alla comune origine del cristianesimo e dell'ebraismo, riconosceva loro il diritto di vivere e praticare la religione, pur condannandoli a una condizione degradata come punizione per aver rifiutato Gesù. In ultima analisi la chiesa non voleva sterminare gli ebrei, che considerava redimibili, bensì convertirli e, così facendo, riaffermare la supremazia del cristianesimo. Questa fu la logica dall'antisemitismo cristiano premoderno.

Le evoluzioni dell'antisemitismo nella Germania dell'Ottocento furono straordinariamente complesse. Quanto a carattere e contenuti, per tre quarti di secolo esso fu in una condizione di fluidità continua, mentre procedeva la metamorfosi dalla sua incarnazione religiosa medioevale a quella razziale moderna.

[...] Per centinaia d'anni l'antisemitismo aveva dato coerenza e orgoglio all'immagine di sé del mondo cristiano; nell'Ottocento in Germania molte vecchie certezze si andavano sgretolando, e l'importanza dell'antisemitismo come modello di coerenza culturale, e poi come ideologia politica, crebbe in modo spaventoso, insieme alle sue qualità salvifiche per una società che stava perdendo degli ormeggi.

[...] Nei primi tre quarti dell'Ottocento il dibattito sugli ebrei fu dedicato, sia pure non per consapevole intenzione, a forgiare una concezione comune di ciò che costituiva la loro identità. La definizione religiosa faceva sempre meno presa, pur continuando a echeggiare e trovare consenso nel popolino. Tramite la letteratura antisemita circolava l'idea che gli ebrei fossero o una «nazione» o un gruppo di interesse politico. Già nella prima metà del secolo si dava voce alla definizione che sarebbe emersa nella seconda metà del secolo dal confuso conflitto delle concettualizzazioni, per cui gli ebrei erano una «razza». Contava molto come i tedeschi concepissero gli ebrei, poiché ogni concettualizzazione comportava conseguenze diverse sul potenziale trattamento che avrebbero riservato loro. Sebbene in Germania, nella contesa sulle definizioni, vi fosse un evidente dissenso su ciò che faceva degli ebrei quel che erano, su ciò che li impregnava delle loro presunte qualità nocive, regnava una totale unanimità su una convinzione di fondo: che fossero effettivamente nocivi.

[...] L'odio onnipresente e profondo per gli ebrei ghettizzati era parte integrante della cultura di una Germania che emergeva dal Medioevo, e dunque la rielaborazione del tema del pericolo ebraico fu una reazione quasi naturale alle proposte di emancipazione iniziate alla fine del Settecento, alle misure lente e parziali dell'Ottocento in quella direzione e ai dibattiti a tutti i livelli sociali sull'opportunità di concedere loro dapprima qualche diritto civile, poi altri. Con questo lo status quo era stato pregiudicato e poi sovvertito, e gli oppositori dell'integrazione civile dedicarono energie, intelligenza e notevoli talenti polemici a mobilitare i compatrioti contro l'ondata della presunta infiltrazione ebraica che minacciava di abbattere i pilastri dell'identità sociale e culturale tedeschi. Ne risultò una «conversazione» sociale sempre più carica di emotività, e sempre più fissata sulla definizione, il carattere e la valutazione degli ebrei, tutto nella prospettiva del rapporto con i tedeschi, i quali erano per assunto diversi da loro, se non incompatibili.

Non c'è gruppo minoritario in grado di trasmettere una buona immagine di sé in un dibattito svolto in queste condizioni e in questi termini, nel cui ambito esso resta definito come il gruppo di diversi di gran lunga più chiuso all'interno di una maggioranza sociale per il resto omogenea, e gravato di un carico emotivo così pesante.

[...] Il conflitto formale sul riconoscimento della cittadinanza tedesca agli ebrei rafforzò, e di fatto sancì, il carattere vieppiù politico nell'immagine negativa degli ebrei - un assioma della cultura tedesca - che era in continua evoluzione. [...] Eleonore Sterling, tra i massimi studiosi dell'antisemitismo in Germania durante la prima metà del XIX° secolo, scrive: «La dottrina dell'odio viene disseminata nel popolo da una miriade di volantini, manifesti e articoli di giornale. Nelle strade e nelle taverne i "mestatori" pronunciano odiosi discorsi e fanno petizioni incendiarie ... l'agitazione viene tenuta viva non solo dagli oratori da strada e da taverna, ma persino da chi ama considerarsi "cristianissimo"».

[...] Con la scoperta, alla metà del secolo, delle «razze» germanica ed ebraica, la stessa concettualizzazione del Volk (popolo), sino ad allora basata su criteri linguistici e di nazionalità, subì una trasformazione, abbracciando i princìpi essenzialisti e apparentemente scientifici della razza. Nel 1847 uno dei polemisti volkisch e antisemiti più popolari e influenti bene coglieva i termini della metamorfosi, spiegando che «il senso del vigore» e «l'amor di patria» si fondevano sullo «spirito cristiano germanico» e sull'«unità razziale germanica». L'ebreo, per ricorrere all'immagine del sangue, autentico elisir del pensiero razziale tedesco, era «l'eterno purosangue dell'estraneità».

Il concetto di «razza» forniva all'antisemitismo moderno una coerenza sino ad allora mai raggiunta. [...] Il modello cognitivo alla base dell'idea di razza presentava numerose proprietà particolarmente confacenti all'antisemitismo, e pericolose per gli ebrei, che ne facilitavano l'innesto sull'antico tronco antisemita. Contrapponendo la germanicità all'ebraicità, quel modello cognitivo rilanciava la contrapposizione assoluta e binaria che da sempre gli antisemiti tradizionali individuavano tra cristianesimo ed ebraismo. Come nel Medioevo, la nuova divisione manichea trasformava delle persone, gli ebrei, in un simbolo culturale fondamentale, il simbolo di tutto ciò che non quadrava nel mondo. Secondo entrambe le concezioni, peraltro, non si trattava di meri simboli inanimati, bensì di agenti attivi che minacciavano in piena consapevolezza il sacro ordine naturale del mondo. Un'immagine maligna che bastò a fare degli ebrei il diavolo di quella visione laica del mondo, allo stesso modo - sia pure con un'articolazione meno esplicita - in cui la mentalità cristiana del Medioevo li aveva identificati con il diavolo, la magia e la stregoneria.

[...] Al culmine di un'ondata antisemita, nel 1881 Johannes Nordmann, un popolare e influente pamphlettista, esprimeva in termini inequivocabili la presunta barriera fisiologica che impediva agli ebrei il passaggio al cristianesimo: la conversione non poteva trasformarli in tedeschi più di quanto si possa far diventare bianca la pelle di un nero. [...] L'assenza di ogni alternativa allo scontro frontale con gli ebrei era implicita in un testo fondamentale per quell'ideologia, redatto nel 1877. I tedeschi devono convincersi, vi si diceva, «che anche l'ebreo più onesto, spinto dall'influenza ineludibile del suo sangue, portatore della moralità semitica [Semitenmoral] del tutto opposta alla vostra, non può far altro che operare ovunque per la sovversione e la distruzione della natura tedesca, della civiltà tedesca». Sulla sostanza di questa proclamazione avrebbero potuto essere d'accordo tutti gli antisemiti tedeschi del tardo Ottocento e in realtà anche del Novecento [...] .

«Le voci che, tutte d'accordo nel dare un giudizio assolutamente negativo sull'essere ebraico, incitavano alla persecuzione e all'annientamento senza pietà, erano la stragrande maggioranza, e di decennio in decennio il loro seguito aumentava. Gli ebrei erano vermi, parassiti da sterminare. Si doveva strappar loro di mano le ricchezze che avevano accumulato col furto e l'imbroglio, e poi, con grande vantaggio, deportarli definitivamente in qualche remoto angolo della terra, per esempio in Guinea. Alcuni propugnavano la soluzione più semplice: ammazzarli, perché il dovere di difendere ..."moralità, umanità e cultura" imponeva una battaglia senza quartiere contro il male ... L'annientamento degli ebrei coincideva, per molti antisemiti, con la salvezza della Germania. Erano evidentemente convinti che l'eliminazione di una minoranza avrebbe posto fine a tutte le disgrazie, e il popolo tedesco sarebbe stato di nuovo padrone in casa propria».

Klemens Felden, l'autore del passo citato, ha analizzato i contenuti di cinquantuno autorevoli pubblicazioni di scrittori antisemiti distribuite in Germania tra il 1861 e il 1895. I risultati sono sconcertanti. In ventotto casi si propongono «soluzioni» alla Judenfrage - la questione ebraica -; di queste ben diciannove prevedono lo sterminio fisico degli ebrei. Nell'era pregenocida della civiltà europea - quando ancora non esisteva la consapevolezza della carneficina dei due conflitti mondiali, né tanto meno del genocidio come strumento della politica nazionale - oltre due terzi di questi noti antisemiti portavano alle estreme conseguenze le proprie convinzioni emettendo, o meglio reclamando, una sentenza genocida.

(Tratto da I volonterosi carnefici di Hitler, di Daniel Jonah Goldhagen - Mondadori)

Com'è andata a finire lo sappiamo.

Intolleranza oggi

Spesso il cristianesimo viene messo sotto accusa, come in questo caso, nel caso dell'inquisizione, eccetera. Purtroppo il cristianesimo, nell'arco della storia, si è reso colpevole di crimini "poco cristiani". Ma che i cristiani abbiano a volte agito male non significa che la religione cristiana in sé sia assiomaticamente negativa. L'intervista a Don Gino Rigoldi (nella seconda parte dell'articolo Polemica indegna) è un mirabile esempio di tolleranza e di elevatezza spirituale. Non c'è intenzione, qui, di favorire questo o quel credo religioso, sia esso Cristo, Allah, Buddha o quant'altro. C'è una precisa volontà, però, di accusare e denunciare l'intolleranza e la degradazione del prossimo, qualsiasi sia il «motivo» giustificante. Difendiamo le idee e le credenze, qualsiasi esse siano, ma combattiamo le azioni che recano danni al prossimo a causa delle sue idee o credenze diverse.

Vediamo, quindi, l'intolleranza nascere dal cristianesimo, che non tollera il diverso, che combatte l'ebreo «uccisore» di Gesù. Prima di esso, grandi civiltà come quella egizia, greca e romana avevano manifestato particolari doti di tolleranza verso i popoli conquistati e le culture e religioni diverse dalla loro. È importante fare questa disanima, seppur breve, poiché il cristianesimo è stata la forza civilizzatrice ed educatrice della nostra società occidentale, e taluni modus operandi sono tuttora in essere ed è bene conoscerli per poterli "correggere".

«I chierici credevano che se il cristianesimo era in effetti la vera fede, e i suoi seguaci la nuova Israele, l'ebraismo andasse screditato agli occhi dei fedeli. Nei sermoni, nelle rappresentazioni teatrali, nella letteratura religiosa del Medioevo gli ebrei venivano spesso descritti come gli avversari della chiesa, coloro che fin dal tempo della Crocifissione costituivano una minaccia per i buoni cristiani». Questo era vero allora, ed è rimasto vero nel tempo fino ad oggi. La chiesa cristiana ha sempre combattuto dei «nemici» diversi, che professavano credi diversi da quello cristiano dominante, costitutivo dell'ordine morale del cosmo e della società. Prima gli ebrei. Durante l'Inquisizione del Sant'Uffizio i nemici, oltre agli ebrei, divennero tutti coloro che erano «scomodi», «eretici», «votati assiomaticamente al male». All'inizio dell'era cristiana gli ebrei «uccisori di Gesù» rappresentavano buona parte di tutto ciò che era antitetico all'ordine morale del mondo cristiano. Nel Medioevo questo concetto fu esteso agli eretici, alle «streghe» e via discorrendo, diventando sinonimi del diavolo, il male in persona. Oggi abbiamo le grandi religioni che «invadono» l'Europa, le minoranze religiose definite in modo sprezzante sette - il che convoglia un senso di sentenza già conclamata.

L'idea dei cristiani di essere i detentori della verità divina, e di considerare qualsiasi altra «realtà» come nemica e malefica, li ha portati a campagne di «evangelizzazione forzata», come ad esempio nelle Americhe, a seguito delle scoperte di Colombo, dove la spada era il mezzo di comunicazione più usato per la conversione degli «incivilizzati».

Poiché «cultura cristiana» è quasi sinonimo di «cultura europea» o «cultura occidentale», il concetto di essere «nel giusto» mentre chi non la pensa come noi è un «nemico malefico» da convertire a tutti i costi, naturalmente per la sua salvezza, pena la morte - per mano dell'uomo «giusto» oppure della divinità «giusta» oppure nel nome dell'ideologia «giusta» - è un concetto che ha fatto parte, da sempre, delle ideologie o poteri che via via si sono succeduti, incluso l'europeissimo comunismo. Siccome oggi è «pericoloso» e «démodé» prendersela con gli ebrei, che comunque hanno già avuto la loro «punizione», i nuovi nemici sono gli infedeli musulmani immigrati in Europa, le sette - «pericolosi» movimenti eretici o pseudo-religiosi, secondo l'opinione dominante -, i maghi - che sono la versione moderna di streghe e stregoni Medioevali, malvagi, truffatori sempre e comunque -, i Verdiglione, i Padre Pio, eccetera.

Come viene documentato ne I volonterosi carnefici di Hitler, l'antisemitismo e l'intolleranza nella Germania Ottocentesca, che hanno portato, poco dopo, alla realizzazione della «soluzione finale», ebbe l'imprimatur scientifico della teoria razziale. È noto che nell'Ottocento, e in particolar modo nella seconda metà del secolo, ebbe forte impulso in Germania la «scienza» psichiatrica, avallatrice della teoria razziale. È altrettanto noto che la psichiatria tedesca si adoperò alacremente nella buona riuscita dell'Olocausto, dando vita ad esperimenti «scientifici» di cura delle malattie mentali tramite lobotomia (una tecnica tuttora usata in psichiatria), ad esperimenti di genetica e ai primi studi «applicati» dell'eutanasia, che hanno portato alla morte di oltre 300.000 persone sotto i ferri dei macellai psichiatrici tedeschi. È altresì risaputo che alla fine del XIX° secolo e agli inizi del XX° alcuni luminari psichiatrici, tra cui l'italiano Cesare Lombroso, studiavano e insegnavano le teorie della «criminalità genetica», secondo la quale i criminali potevano essere riconosciuti «a priori» in base ai loro tratti somatici (si noti qui il parallelismo con gli insegnamenti del Malleus maleficarum del 1486, il manuale teorico-pratico della Santa Inquisizione). Ci sono rimasti come testimonianza i risultati degli studi del Lombroso su peni, vagine, teste squartate e incollate insieme, eccetera - si veda le Mummie del Paolo Pini, ampiamente descritte sulla stampa nazionale agli inizi degli anni 80. Negli anni '30 lo psichiatra italiano Cerletti, sulla scia degli studi «scientifici» psichiatrici e dell'antisemitismo dell'Italia fascista, inventò l'elettroshock, altra «terapia» tuttora usata, e recentemente difesa dal cristianissimo ex-Ministro alla Sanità Rosy Bindi, che è uno schiaffo a tutti i trattati sui Diritti Umani, a tutti i concetti di rispetto e di comportamento umano verso il prossimo.

Naturalmente queste «terapie» assolutamente «scientifiche» hanno l'ammirevole scopo di «aiutare», di «guarire», come lo avevano i roghi dell'Inquisizione, o com'era nell'intendimento della «soluzione finale». E queste teorie e scienze «umanitarie» che degradano e uccidono per «aiutare», nonostante sia risaputo quale sia stata la loro culla e le loro motivazioni fondamentali, vengono oggi usate nei nostri tribunali per stabilire «scientificamente» chi è buono e chi è cattivo, chi si comporta secondo i canoni del potere dominante e chi no. E vediamo psichiatri e teorie psichiatriche suggellare i vari movimenti inquisitori moderni - vedi il GRIS, l'ARIS, il CICAP, Telefono Antiplagio, per citarne alcuni -, che sono mirabilmente, e con l'avallo spesso di apparati istituzionali, in prima fila della nuova caccia agli «ebrei» moderni.

Vale la pena notare che la recentissima guerra fratricida nella ex-Iugoslavia, basata su «teorie di igiene razziale» - ancora! - è stata scatenata dalla psichiatria Iugoslava. Lo psichiatra Jovan Raskovic, fu il teorizzatore della «super-razza Serba», colui che in una intervista televisiva si assunse «la responsabilità di aver preparato questa guerra, anche se i preparativi non furono militari. Se io non avessi creato questa spinta emotiva tra i Serbi e non li avessi incoraggiati, niente di tutto questo sarebbe accaduto». «Raskovic», dice un suo collaboratore, «...usava l'elettroshock e altre terapie psichiatriche sadiche con particolare piacere nei confronti dei Croati, specie delle donne croate...». E utilizzava l'elettroshock anche sui bambini. Nel 1990 pubblicò le proprie teorie razziali nell'opuscolo Luda Zemlja (Una nazione folle) in cui asserisce che i Croati «soffrono di un complesso di castrazione e hanno paura di qualsiasi cosa: di conseguenza non conoscono sé stessi, non sanno esercitare il potere, né il comando. Hanno quindi bisogno di essere guidati». Dei musulmani invece dice che «...soffrono di una fissazione erotica anale, che è un tratto tipico delle personalità multiple (schizofrenici), e di una compulsione ad accumulare beni e denaro...». Raskovic, questo «scientifico» luminare della psichiatria, era membro dell'Accademia delle scienze della Serbia. C'è poi lo psichiatra Radovan Karadzic, messo a capo del Partito Democratico Serbo dallo stesso Raskovic. Karadzic è anche lo psichiatra che ha in terapia Slobodan Milosevic, e del quale è intimo amico [1].

Di nuovo, com'è andata lo sappiamo. Una volta saliti al potere hanno potuto dar sfogo alle loro teorie - ripetute ed insegnate da oltre due secoli - e far vedere al mondo innanzi tutto quali sono i veri problemi da risolvere - quelli razziali e delle minoranze - e come risolverli. Con buona pace dell'ONU, della dichiarazione Universale dei Diritti dell'Uomo, e di chi ci crede.
36 di 9422 - 05/12/2010 16:54
protomega N° messaggi: 23994 - Iscritto da: 02/3/2007
Ospedale psichiatrico

Per la cura delle malattie mentali e per il mantenimento della sicurezza sia della società che dei malati vennero costruiti in Italia, come negli altri Stati, gli ospedali psichiatrici.



Storia [modifica]
Le origini [modifica]
Gli ospedali psichiatrici, istituiti in Italia a partire dal XV secolo, furono regolati per la prima volta nel 1904.
Essi furono chiamati inizialmente "manicomi", "frenocomi" o con altri nomi pittoreschi.
La costruzione di tali strutture venne richiesta da alcuni ordini monastici o dalle amministrazioni provinciali o da medici illustri.
Dal 1728 gli ospedali psichiatrici furono richiesti da ordini ecclesiastici. Esempi sono:

l'ospedale neuropsichiatrico di Feltre, fondato nel 1775 dall'unione della scola di S. Paolo e quella dei frati conventuali e chiuso nel 1978;[1]
l'ospedale neuropsichiatrico provinciale S. Margherita di Perugia, voluto dal Cardinale Rivalora nel 1824 e chiuso nel 1980;[2]
l'ospedale psichiatrico provinciale S. Benedetto di Pesaro, fondato da mons. Benedetto Capelletti nel 1823 e chiuso nel 1978;[3]
l'ospedale psichiatrico S. Niccolò di Siena gestito dalla "Compagnia dei disciplinati" nel 1818 e chiuso nel 1978;[4]
gli ospedali psichiatrici di Torino, gestiti dalla confraternita del S. Sudario e della Vergine delle Grazie dal 1728 e chiusi nel 1981;[5]
l'ospedale psichiatrico S. Antonio Abate di Teramo, voluto nel 1881 dalla Congregazione di carità di Teramo e chiuso nel 1978;[6]
l'ospedale psichiatrico S. Maria della pietà di Roma, formato intorno al 1550 ad opera di una confraternita di gentiluomini spagnoli vicini a S. Ignazio di Loyola e chiuso nel 1978.[7]
Due esempi di ospedali psichiatrici costruiti grazie all'interessamento di persone illustri furono:

la casa di cura Sbertoli di Pistoia, fondata nel marzo del 1868 dal prof. Agostino Sbertoli e chiusa nel 1950;[8]
l'istituto Costante Gris di Mogliano Veneto, fondata nel 1882 dal sindaco ing. Costante Gris.[9]
Dal 1874 alla legge n. 36 del 1904 [modifica]
Nel XIX secolo a causa del crescente numero dei malati si iniziò a discutere di una legge che potesse regolare tutti i manicomi del Paese che fino a quel momento avevano avuto piena autonomia per quanto riguarda l'internamento.
Già a partire dal 1874 era stato proposto dal ministro dell'Interno Girolamo Cantelli un "progetto di regolamento" che però non venne mai attuato[10] .
In un' "Ispezione sui manicomi del Regno" svolta nel 1891 da parte del ministro dell'Interno Giovanni Nicotera si denunciavano numerosi inconvenienti di tali strutture quali la scarsità o la fatiscenza dei locali, l'inadeguatezza degli strumenti di cura, le scarse condizioni igieniche, la mancanza di una registrazione clinica e il sovraffollamento.
La mancanza di una legge nazionale faceva sì che l'internamento potesse avvenire in differenti modi:

a Napoli, Torino, Genova e Caserta era necessaria l'autorizzazione del prefetto in base al certificato medico;
a Novara, Bergamo e Pavia era necessaria l'autorizzazione del presidente della deputazione provinciale;
ad Ancona, Reggio-Emilia e Imola era necessaria l'autorizzazione del sindaco;
a Perugia era necessaria l'autorizzazione del presidente della Congregazione di carità;
a Brescia e Messina serviva il certificato medico;
a Monza era sufficiente la domanda della famiglia;
a Verona, Pistoia, Castelgandolfo, Mantova, Cagliari e Belluno era necessario un avviso di avvenuta reclusione da mandare al prefetto e alla questura.[11]
Anche se formalmente le autorizzazioni erano sempre necessarie, per evitare complicazioni e ritardi, si era soliti praticare ammissioni d'urgenza con successiva domanda di autorizzazione agli organi competenti.
Solo nel 1902 Giolitti presentò al Senato un disegno di legge "Disposizioni intorno agli alienati e ai manicomi", basato su quattro punti essenziali, che serviva a regolamentare tutte le strutture, senza distinzioni.
Veniva richiesto:

l'obbligo di ricovero in manicomio soltanto per i dementi pericolosi o scandalosi;
l'ammissione solo dopo procedura giuridica, salvo casi d'urgenza;
l'attribuzione delle spese alle province;
l'istituzione di un servizio speciale di vigilanza sugli alienati.
La legge n. 36 venne approvata il 14 febbraio 1904 e vennero aggiunte modifiche, quali:

le dimissioni del malato solo dopo un decreto del tribunale su richiesta del direttore del manicomio;
il "licenziamento in via di prova", concesso al malato che dimostrava miglioramenti. Esso consisteva nella dimissione temporanea resa definitiva se il malato fosse risultato completamente guarito[12]
La legge 36 del 1904, che resterà in vigore fino al 1978, serviva solo come strumento di protezione dal "matto" per la società e non considerava i bisogni e i diritti del malato.
Essa risultava innovativa rispetto al passato ma non teneva in considerazione né la durata di permanenza nella struttura psichiatrica né il malato, che perdeva ogni diritto dopo il ricovero.
Negli ospedali psichiatrici venivano utilizzati l'elettroshock, il coma insulinico e farmaci sperimentali come la cloropromazina che permetteva di ridurre le crisi violente dei ricoverati.[13]


In epoca fascista [modifica]
Il 19 ottobre del 1924 venne istituita presso la sala del Consiglio Provinciale di Bologna la Lega Italiana di Igiene e Profilassi Mentale; il Consiglio di presidenza era composto da Giulio Cesare Ferrari, Sante De Sanctis e Eugenio Medea; la presidenza onoraria era assegnata a Leonardo Bianchi, Eugenio Tanzi e Enrico Morselli mentre il Comitato centrale era rappresentato dai presidenti delle tredici sezioni regionali.[14]
Il Comitato ebbe idee innovative e cercò di cambiare la visione e la funzione dei manicomi fino a quel momento. Si cercò di restituire a tali strutture la funzione curativa a discapito di quella detentiva, usata come strumento di sicurezza.
Un'altra innovazione fu fatta da Ernesto Ciarla, che istituì i Dispensari per una cura precoce della malattia e per diminuire l'onere amministrativo.
L'impostazione della legge del 1904 fu riformata, iniziando a far parte del progetto eugenetico che cercava di razionalizzare economicamente le risorse biologiche della nazione.
Tra il 1926 e il 1946 il numero dei ricoverati negli ospedali psichiatrici aumentò a causa dell'adozione di politiche di bonifica sociale finalizzate al miglioramento della razza.
I ricoverati avevano in media un' età compresa tra i 20 e i 40 anni, in prevalenza maschi, non sposati, di istruzione elementare inferiore. La durata della degenza era variabile:

il 20% delle psicosi tossiche endogene e il 30% delle psicosi tossiche esogene e affettive erano curate in meno di un mese;
il 72.5% delle frenastenie, il 50% delle psico-degenerazioni, il 62.6% delle epilessie, il 40.4% delle psicosi affettive, il 63.5% delle schizofrenie, il 27% delle psicosi tossiche endogene e il 36% delle psicosi alcoliche venivano tenute in osservazione per un periodo compreso da un anno e oltre due anni.

Su cento dimessi:

il 17.6% era considerato guarito;
il 44.3% era ritenuto in esperimento;
il 21.4% era affidato alle famiglie. [15]
Tra il 1922 e il 1937 furono istituiti numerosi istituti, tra i quali:

l'ospedale psichiatrico Casa della Divina Provvidenza di Bisceglie, fondato da don Pasquale Uva nel 1922;[16]
l'ospedale psichiatrico provinciale di Rovigo, costruito nel 1930 e chiuso nel 1995,[17]
l'ospedale psichiatrico di Reggio Calabria, costruito nel 1932 e chiuso nel 1984;[18]
l'ospedale psichiatrico di Siracusa, costruito nel 1934 e chiuso nel 1998;[19]
l'ospedale psichiatrico di Montecchio Precalcino. costruito nel 1937 e chiuso nel 1980;[20]
Il sessantotto [modifica]
Nel 1961 Franco Basaglia fondò un movimento che aveva come obiettivo la chiusura dei manicomi.
Il movimento basagliano avanzò tale proposta dopo aver preso conoscenza dei cattivi comportamenti di medici e psichiatri che consideravano il lavoro all'interno degli ospedali psichiatrici come ripiego per chi non possedeva uno studio privato con la tradizione del nome di famiglia.
Nel 1965 Luigi Mariotti tentò l'avvio di una riforma del settore istituendo piccole strutture da affiancare ai dispensari e ai centri di igiene mentale, legate agli ospedali civili che potessero essere fonte di aiuto e comprensione del paziente.
Nel marzo del 1968 venne approvata una legge stralcio che introduceva il ricovero volontario.
Nello stesso anno gli ospedali psichiatrici iniziarono a denunciare le cattive condizioni sia delle strutture che dei malati; per esempio:

a Gorizia partì una protesta dai medici;
a Collegno venne occupato l'ospedale, i malati presero parte attivamente alle assemblee e vennero prodotti numerosi documenti dell'occupazione.
L'ospedale di Colorno [modifica]
Un caso particolare e fondamentale fu l'occupazione dell'ospedale di Colorno (Parma) tra il 1968-1969 che rappresentava una tappa fondamentale per l'evoluzione dell'assistenza psichiatrica.[21]
Prima dell'occupazione l'ospedale si presentava con una struttura molto vecchia, con molti malati e pochi medici ed infermieri. Vi era una rigida divisione tra uomini e donne, infermieri ed infermiere e dei reparti in base al grado del disturbo.
Nella primavera del 1968 la protesta degli infermieri trovò consenso da parte del movimento studentesco che iniziò ad interessarsi all'ospedale, vedendo nella psichiatria il paradigma estremo della medicina di classe.
Dal 27 al 30 gennaio 1969 si svolse a Parma il convegno "Medicina e psichiatria" ed è proprio qui che gli studenti iniziarono ad avanzare richieste sul miglioramento della struttura e il 2 febbraio decisero di occuparla.
Tra le numerose proposte presentate all'interno delle assemblee dell'occupazione si proponeva di:

aprire le porte della struttura;
tenere assemblee comuni di uomini e donne;
mandare in pensione i vecchi medici;
avere permessi di uscita e di consumo delle sigarette;
cancellare la sveglia alle sei;
rimuovere le inferriate.
Tutte le richieste vennero accolte ma la stampa locale si dimostrò contraria all'occupazione e il 28 febbraio un gruppo di infermieri, appoggiati sia dalle istituzioni che dalla stampa iniziò la contro-occupazione.
Iniziarono ad esserci incertezze sia da parte dell'amministrazione, che temeva di subire un danno economico se l'ospedale fosse stato chiuso, sia da parte dei sindacati, che per la maggior parte non appoggiarono la protesta.
Il 9 marzo terminò l'occupazione.
Alla fine del 1969 Basaglia divenne direttore dei servizi psichiatrici di Parma.

La riforma del 1978 [modifica]
La riforma italiana nota come legge 180 o Franco Basaglia ha abolito il manicomio e ha eliminato la pericolosità come ragione della cura.
Il Trattamento sanitario obbligatorio (Tso) doveva essere effettuato "se esistano alterazioni psichiche tali da richiedere urgenti interventi terapeutici e se gli stessi non vengano accettati dall'infermo (art.34)"[22]
La legge si costituisce di 11 articoli:

Art. 1 - Accertamenti e trattamenti sanitari volontari e obbligatori;
Art. 2 - Accertamenti e trattamenti sanitari obbligatori per malattia mentale;
Art. 3 - Procedimento relativo agli accertamenti e trattamenti sanitari obbligatori in condizioni di degenza ospedaliera per malattia mentale;
Art. 4 - Revoca e modifica del provvedimento di trattamento sanitario obbligatorio;
Art . 5 - Tutela giurisdizionale;
Art. 6 - Modalità relative agli accertamenti e trattamenti sanitari obbligatori in condizioni di degenza ospedaliera;
Art. 7 - Trasferimento alle regioni delle funzioni in materia di assistenza ospedaliera psichiatrica;
Art. 8 - Infermi già ricoverati negli ospedali psichiatrici;
Art. 9 - Attribuzioni del personale medico;
Art. 10 - Modifiche al codice penale;
Art. 11 - Norme finali.
I principi che la nuova legge afferma, cioè prevenzione e riabilitazione del malato, risultarono nuovi e i processi di adattamento molto lunghi. Tutto ciò che fino al 1978 era affidato alle province diventa responsabilità delle unità sanitarie locali e delle regioni.
La legge 180 del maggio 1978 rappresentava l'anticipazione della più generale legge istitutiva del servizio sanitario nazionale del 23 dicembre 1978, n. 833.

Dopo la legge 180 [modifica]
Anche dopo l'approvazione della legge 180 non venne modificato il disinteresse nei confronti dei bisogni dei pazienti. Non vi furono delle modifiche sostanziali del carattere carcerario degli ospedali psichiatrici.[23]
Nel 1994 il governo Berlusconi ha introdotto nella legge finanziaria un insieme di norme che impongono la chiusura definitiva dei manicomi e nel 1996 il governo Prodi l'ha attuata.

Situazione attuale [modifica]
I 76 manicomi attivi nel 1978 sono stati sostituiti da:

320 SPDC (Servizio psichiatrico ospedaliero);
1.341 Strutture residenziali (C.T.R. Comunità terapeutica Riabilitativa - G.A. Gruppo Appartamento - C.A. Comunità Alloggio);
257 Strutture semiresidenziali (D.H. Day hospital);
433 Imprese Sociali (Residenziali e semiresidenziali);
481 Strutture semiresidenziali (C.D. Centri diurni);
695 Centri di Salute Mentale.[24]
Note [modifica]
^ scheda ospedale neuropsichiatrico di Feltre
^ scheda ospedale neuropsichiatrico provinciale S. Margherita di Perugia
^ scheda ospedale psichiatrico provinciale S. Benedetto di Pesaro
^ scheda ospedale psichiatrico S. Niccolò di Siena
^ scheda ospedali psichiatrici di Torino
^ scheda ospedale psichiatrico S. Antonio Abate di Teramo
^ scheda ospedale psichiatrico S. Antonio Abate di Teramo
^ scheda casa di cura Sbertoli di Pistoia
^ scheda istituto Costante Gris di Mogliano Veneto
^ Lisa Roscioni,Luoghi infami e sequestri arbitrari. pag. 16
^ AA.VV, Relazione a S. E. il Ministro dell'Interno sulla ispezione dei manicomi del Regno, pag. 202-203
^ L. Anfosso, La legislazione italiana sui manicomi e sugli alienati pag. 52.
^ Massimo Moraglio, La psichiatria italiana nel secondo dopoguerra, pag. 37
^ Francesco Cassata, Il lavoro degli "inutili": fascismo e igiene mentale, pag. 23
^ G. Modena, La morbosità delle malattie mentali in Italia nel triennio 1926-27-28, pag. 14-47
^ scheda ospedale psichiatrico Casa della Divina Provvidenza di Bisceglie
^ scheda ospedale psichiatrico provinciale di Rovigo
^ scheda ospedale psichiatrico di Reggio Calabria
^ scheda ospedale psichiatrico Siracusa
^ scheda ospedale psichiatrico di Montecchio Precalcino
^ Sergio Dalmasso, Il Sessantotto e la psichiatria, pag.54
^ Maria Grazia Giannichedda, La democrazia vista dal manicomio. Un percorso di riflessione a partire dal caso italiano., pag. 101
^ Agostino Pirella, Poteri e leggi psichiatriche in Italia, pag.120
^ dati ospedali psichia
37 di 9422 - 05/12/2010 18:26
protomega N° messaggi: 23994 - Iscritto da: 02/3/2007
Razzismo


Nella sua definizione più semplice, per razzismo si intende la convinzione preconcetta che la specie umana sia suddivisa in razze biologicamente distinte e caratterizzate da diversi tratti somatici e diverse capacità intellettive, e la conseguente idea che sia possibile determinare una gerarchia di valore secondo cui una particolare razza possa essere definita "superiore" o "inferiore" a un'altra.

Definizione

Più analiticamente si possono distinguere diverse accezioni del termine:

storicamente rappresenta un insieme di teorie con fondamenti anche molto antichi (ma smentite dalla scienza moderna) e manifestatesi in ogni epoca con pratiche di oppressione e segregazione razziale, che sostengono che la specie umana sarebbe un insieme di razze, biologicamente differenti, e gerarchicamente ineguali. Tra gli ispiratori ideologici degli aspetti contemporanei di questa teoria vi fu l'aristocratico francese Joseph Arthur de Gobineau, autore di un Essai sur l'inégalité des races humaines[1] (Saggio sulla diseguaglianza delle razze umane, 1853-1855). Nel XIX secolo quello che sarebbe stato poi definito razzismo nel secolo successivo ebbe rilevanza scientifica, al punto da venire oggi chiamata dagli storici razzismo scientifico. Intorno al 1850 il razzismo esce dall'ambito scientifico e assume una connotazione politica, diventando l'alibi con cui si cerca di giustificare la legittimità di prevaricazioni e violenze. Una delle massime espressioni di questo uso è stato il nazionalsocialismo.
In senso colloquiale definisce ogni atteggiamento attivo di intolleranza (che può tradursi in minacce, discriminazione, violenza) verso gruppi di persone identificabili attraverso la loro cultura, religione, etnia, sesso, sessualità, aspetto fisico o altre caratteristiche. In tale senso, però, sarebbero più corretti, anche se sono raramente usati nel linguaggio popolare corrente, termini come xenofobia o meglio ancora etnocentrismo
in senso più lato, e di uso non appropriato, comprende anche ogni atteggiamento passivo di insofferenza, pregiudizio, discriminazione verso persone che si identificano attraverso la loro regione di provenienza, cultura, religione, etnia, sesso, sessualità, aspetto fisico, accento dialettale o pronuncia difettosa, abbigliamento, modo di socializzarsi o altre caratteristiche

Etimologia

Tradizionalmente, il termine razzismo si riconduceva alla composizione di razza, dal latino generatio oppure ratio, con il significato di natura, qualità e ismo, suffisso latino -ismus di origine greca -ισμός (-ismòs), con medesimo significato di "classificazione" o "categorizzazione", qui inteso come astratto collettivo, sistema di idee, fazione e, per estensione, partito politico che può sottintendere significati differenti. Oggi l'etimologia viene in genere interpretata in modo diverso, in quanto si suppone che il termine razza italiano, così come gli equivalenti nelle altre lingue neolatine, derivi dal francese antico haraz o haras, allevamento di cavalli; per falsa divisione del termine unito all'articolo, l'haraz diventa così la razza[2][3].

Introduzione

Si potrebbe direttamente partire con una dettagliata trattazione lineare storico geografica, ma è utile premettere due paragrafi.

Il punto di vista scientifico attuale, consolidato e basato su discipline che adottano il metodo scientifico, relativo alla diversificazione degli esseri umani odierni o La questione delle "razze" umane.
Una veloce analisi de Il Razzismo scientifico, termine utilizzato dagli storici per indicare una pseudoscienza, una particolare forma di razzismo organizzato, fondamento dei più gravi atti di crimini contro l'umanità in occidente nell'ultimo secolo.
La questione delle "razze" umane [modifica]
Grazie al contributo dato dalla genetica, soprattutto dopo la seconda guerra mondiale, la biologia considera ormai un dato assodato il fatto che tutti i componenti della specie Homo sapiens sapiens costituiscano un solo ed unico insieme omogeneo e che due gruppi etnici qualsiasi, il cui aspetto sia stato modificato dall'adattamento ad ambienti esterni diversi, possano essere apparentemente molto diversi, ma, in realtà, assai vicini dal punto di vista genetico[4][5]. Al contrario, popolazioni che condividono un aspetto simile possono essere geneticamente più distanti rispetto a popolazioni di "razze" diverse.
Il termine razza non è in ogni modo utilizzato in biologia per la classificazione tassonomica ma solo in zootecnia e viene applicato solamente agli animali domesticati.

Last one in's a nigger (USA, anni 1890). Vignetta a sfondo razzista raffigurante afro-americani.Per fare un esempio, la diffusione di un determinato allele (cioè variante) di un gene in popolazioni diverse può presentarsi con maggiori somiglianze fra una popolazione europea ("bianca") ed una africana, che fra due popolazioni europee. Le differenze fra le cosiddette "razze" umane riguardano infatti unicamente l'aspetto esteriore, modificato per adattarsi all'ambiente man mano che la specie umana si diffondeva per tutto il mondo; ed ovviamente l'aspetto esteriore è il dato che salta maggiormente all'occhio. Tuttavia esso coinvolge una frazione relativamente insignificante dell'intero genoma dell'uomo. Ecco perché individui che discordano vistosamente su pochi geni, relativi al colore della pelle o al taglio degli occhi, possono poi condividere caratteristiche genetiche molto più complesse ed importanti, anche se non altrettanto vistose.

Anzi, se c'è un aspetto che caratterizza l'Homo sapiens sapiens al paragone con molte specie animali, esso è semmai la straordinaria omogeneità genetica, causata dal fatto che tutti gli esseri umani discendono da un numero ristretto di antenati, evolutisi in un tempo assai recente (circa centomila anni fa), e rimescolatisi di continuo nel corso della loro storia. Eventuali differenze fenotipiche esteriori, si possono al più collocare nella cosiddetta variazione geografica o cline, nello studio strettamente tecnico riguardante la genetica delle popolazioni.

Il discorso, di tipo generale, è ugualmente estendibile ad aspetti di ambito medico quali la distribuzione nella popolazione delle patologie, o la relativa diversa sensibilità ai farmaci [6] [7].

Questa premessa non era e non è condivisa dal razzismo. Secondo l'ideologia razzista, le differenze di aspetto rispecchiano la divisione effettiva in razze della specie umana. Particolare non secondario, il razzismo professa sempre la superiorità di una "razza" rispetto ad altre, sostenendo che la "razza" superiore è quella a cui appartiene il sostenitore del razzismo, e giustificando così un'eventuale discriminazione e/o oppressione di coloro i quali sono considerati inferiori.

Il razzismo, inteso come teoria pseudoscientifica, fu una delle giustificazioni ideologiche del colonialismo del XIX e XX secolo, del mantenimento della schiavitù nel XIX secolo, oltre che della discriminazione di gruppi sociali in condizioni di inferiorità, come per esempio nel caso dell'apartheid.

Il "Razzismo scientifico"

Razzismo scientifico è l'espressione utilizzata per indicare una particolare forma storica di razzismo organizzato, fondata a partire dal XIX secolo in Europa e nelle Americhe, che nasce in ambito universitario tra le scienze naturali e sociali dell'epoca, prendendo inizio dalla biologia, dalla antropologia, dalla genetica, dalla medicina, dalla criminologia e dalla sociologia, rifacendosi alla teoria evoluzionista di Charles Darwin e al positivismo.

Premessa oggi ritenuta infondata di questa teoria pseudoscientifica fu quella di ritenere che gli esseri umani fossero costituiti da razze diverse, ognuna ad un grado diverso di evoluzione rispetto alle altre, e che i metodi di classificazione della zoologia potevano essere utilizzati per indagare le caratteristiche delle stesse. In questa classificazione si ammisero graduatorie che presupponevano alcune "razze" come superiori per livello evolutivo e intellettivo rispetto alle altre. In particolare essa credette di documentare che la cosiddetta "razza bianca" (e all'interno della razza bianca di una razza particolare, la razza ariana) fosse il livello massimo raggiunto dall'evoluzione naturale della specie umana.

Sostenendo l'esistenza di "razze superiori" queste teorie diedero il via alla nascita dell'eugenetica (eu = buona; genia = discendenza), altra pseudoscienza che mirava alla preservazione della purezza del patrimonio genetico dei popoli "bianchi", sostenendo una campagna politica contro i matrimoni e i rapporti interrazziali che potessero portare alla nascita di figli "razzialmente impuri" e degenerati.

Assertori di questa teoria furono esponenti di primo piano, al massimo livello, delle scienze naturali e sociali di tutto il mondo, per oltre un secolo. La classificazione delle cosiddette "razze" fu lungamente utilizzata per ragioni politiche, e dibattuta tra gli scienziati, che non riuscivano a raggiungere risultati universalmente condivisi. Maggioritariamente, dal 1870 al 1936 essa sosteneva la superiorità di una presunta "razza nordica" o germanica, su tutte le altre.

Usate durante il XIX secolo a sostegno del colonialismo e del diritto alla schiavitù, l'esito politico più vistoso di queste teorie nel XX secolo furono le leggi razziali in molte parti del mondo (USA, Francia, Gran Bretagna, Germania, Spagna, Sudafrica, Svezia, Portogallo, Belgio, Canada) le leggi razziali fasciste in Italia, e infine lo sterminio nazista delle razze "inferiori".

Il razzismo scientifico venne rifiutato politicamente e scientificamente solo dopo la fine della seconda guerra mondiale, quando con la pubblicazione della «Dichiarazione sulla razza» nel 1950 l'UNESCO decretò in modo ufficiale la non esistenza della razze umane e incoraggiò i numerosi biologi a ricordare costantemente l'assenza di validità scientifica della nozione di "razze umane".

A seguito di ciò le stesse teorie non sono però del tutto scomparse, ma ancora oggi vengono in gran parte riproposte da alcune minoranze politiche estremiste semplicemente sostituendo alla parola "razza" quella di "etnia", "popolo", "cultura" o "civiltà". Sostituendo all'elemento biologico (non più riproponibile scientificamente) quello culturale, essi riescono a mantenere intatta la stessa precedente impostazione "pseudo-scientifica".

Storia [modifica]
Premessa

Il razzismo scientifico è stato preceduto e seguito da altre forme di razzismo organizzato, detto anche pre-scientifico. Nel merito di quest'ultimo la parola "razza" non è sempre riferita a un tipo biologico, ma al senso più generale di "categoria" o "genere". Quest'altra forma di razzismo non è meno importante, e in dettaglio prende molti nomi specifici a seconda dell'oggetto della discriminazione: classismo se riferito alla discriminazione in base alla classe sociale, casteismo se in base alla casta di appartenenza, sessismo se in base al sesso, ecc.

Tesi dominante oggi, che tenta di spiegare le cause del razzismo organizzato e scientifico, è quella utilitarista: il razzismo cioè nascerebbe prevalentemente da motivi di utilità politica, a difesa dei privilegi, dell'economia e del potere di una fazione contro l'altra.

Il razzismo "individuale" invece è considerato dalla psicologia un grave disturbo mentale di tipo narcisistico, come anche la xenofobia.

Storia del razzismo nel mondo moderno

La maggior parte delle suddivisioni storiche datano l'inizio della storia moderna al 1492, e anche le radici del razzismo moderno si legano a questa data.
A seguito dell'unificazione delle corone spagnole, il 31 marzo 1492 Ferdinando II d'Aragona ed Isabella di Castiglia firmano il decreto che espelle tutti gli Ebrei dalla Spagna. L'inquisizione spagnola, impersonificata nella figura di Tomás de Torquemada diventa il braccio attivo della politica della corona nell'attuazione della epurazione.
Si crea il concetto di purezza del sangue, base ideologica degli statuti di limpieza de sangre promulgati alla fine del secolo[8].
Nello spirito questi statuti, tesi a analizzare la stirpe originaria della persona, non il suo credo religioso attuale, si riconoscono infine quelli promulgati nel 1496 da Papa Alessandro VI dove si approva uno codice di purezza anche per gli ordini monastici, come quello dei Hieronymiti[9].
Questi sono primi esempi classici di razzismo ideologico con profonde radici utilitaristiche. Durante il periodo dell'espulsione di alcune centinaia di migliaia di persone, le vittime furono numerose. Con questo atto si pose fine ad una lunghissima convivenza produttiva sul territorio iberico di tutte le etnie del mediterraneo. Il massacro di Lisbona del 17 aprile 1506, viene ricordato come un'altra vicenda atroce (migliaia di morti in poche ore, molti dei quali arsi vivi) della penisola Iberica, figlia delle conseguenze delle leggi razziali dell'epoca.

Un fattore da considerare in una prospettiva storica, è che il razzismo è un fenomeno connesso all'età coloniale, quando le grandi potenze europee svilupparono ideologie razziste per risolvere la dissonanza tra valori cristiani di eguaglianza e carità e lo sfruttamento delle popolazioni indigene in America come in Africa.

Prima di quest'epoca la xenofobia può spesso esprimersi direttamente come tale: l'altro è inferiore in quanto "non è come noi" e ci è "quindi" ostile (in greco antico ξενός, "xenos", significa sia "straniero" che "nemico"), perché parla una lingua diversa dalla nostra ("barbaro" in greco significa letteralmente "il balbettante"), perché non professa la nostra religione, perché non si veste come noi (in molte lingue i concetti di "straniero", "strano" ed "estraneo" hanno la stessa radice linguistica, che in italiano è quella del latino "extra": "che viene da fuori").

Tuttavia la società antica preferisce stratificare l'umanità in base a concetti castali, più che razziali: il nobile è ovviamente superiore al plebeo, e il plebeo libero è superiore allo schiavo. Ed ovviamente le caratteristiche dell'individuo inferiore (il suo modo di parlare, di vestire, di comportarsi) "giustificano" pienamente la sua condizione sociale inferiore. Inoltre non va dimenticato che per la gran parte le società premoderne (come ancora molte delle società moderne) sono sessiste, ritenendo cioè che tutti i maschi della razza umana siano biologicamente superiori (più forti, più intelligenti, più morali...), per il solo fatto di essere tali, a tutte le femmine della razza umana.

Ciò detto, la mentalità premoderna in generale non avrebbe giudicato uno schiavo bianco superiore a un nobile - ad esempio - arabo in base alla sua sola appartenenza ad una presunta "razza". Se si cercava una superiorità, essa veniva trovata nella cultura, nell'etnia, nella religione: ogni cristiano è superiore ad ogni infedele, dunque anche uno schiavo cristiano è, moralmente, ma non socialmente, superiore a un principe musulmano. Ma se il principe musulmano si converte al Cristianesimo, viene meno tale inferiorità e prevale nuovamente la superiorità sociale di casta.

La società premoderna considera insomma la "razza" non come un dato immutabile e di primo piano, ma come un dato transitorio e secondario, destinato ad annacquarsi col passare delle generazioni: si ebbero così papi discendenti da famiglie ebraiche convertite, o bastardi di nobili generati con schiave nere (quindi mulatti) legittimati dai loro genitori (per esempio, Alessandro de' Medici detto "il Moro"), come pure ex schiavi "mori" nordafricani (come per esempio Leone Medici/Leone Africano) adottati da nobili famiglie.

Tutto ciò non implica accettazione del diverso: la società antica ha anzi un vero orrore per le novità e la non-conformità; implica però che la diversità motivata dall'appartenenza razziale appare ai nostri avi meno importante di altre diversità, come quelle legate al rango sociale o di altro tipo, che invece per la mentalità moderna sono meno importanti. Non a caso il razzismo in quanto ideologia pseudoscientifica sorge nel momento in cui questo antico criterio di valutazione è ormai in piena crisi dopo la Rivoluzione francese, e non è un caso che uno dei suoi fondatori, de Gobineau, sostenga la superiorità della razza germanica solo per giustificare la superiorità della classe sociale che secondo lui ne discende in Francia (la nobiltà, che è la classe a cui egli appartiene ed il cui monopolio assoluto del potere egli vuole giustificare in questo modo).

A questa generalizzazione si oppone la già citata "limpieza de sangre" "purezza di sangue" che la nobiltà iberica propone nel tardo Rinascimento per respingere l'ascesa degli ebrei e dei moriscos convertiti al cristianesimo, e quindi (teoricamente) integrati nella società spagnola dell'epoca. Quindi, una volta di più, il razzismo quattro-cinquecentesco è un'ideologia escogitata da una casta endogama, e non da una "razza", intesa in senso biologico.

Il concetto di "limpieza de sangre" sarebbe stato applicato anche ai danni delle popolazioni indigene dell'America prima, ed agli schiavi neri ivi importati poi, nonché degli iberici spagnoli che si erano mescolati con essi, creando una società in cui la stratificazione sociale era legata anche al gruppo etnico di appartenenza. Una società estremamente conscia dell'appartenenza razziale, al punto da conoscere non solo concetti come quello di "mulatto" o "meticcio", ma anche quelli di quarteron e octavon, cioè di persona con solo un quarto o un ottavo di sangue nero, o di zambo, cioè meticcio metà nero e metà indio, e via via con ulteriori sottodivisioni.

Paradossalmente, però, tale acuta coscienza delle differenze "razziali", che certo non è sbagliato definire "razzista", fu la reazione a un diffusissimo fenomeno di mescolamento delle razze da parte degli iberici non appartenenti alla nobiltà, i cui effetti si osservano agevolmente ancora oggi in tutta l'America Latina. Non mancò neppure qualche nobile che non disdegnò il matrimonio con i discendenti della nobiltà indigena India, per acquisire maggiore legittimità nel suo dominio agli occhi della popolazione dominata.


Verso il razzismo contemporaneo

Questo fenomeno mostra quanto il razzismo ("non scientifico") iberico fosse qualitativamente diverso dal successivo razzismo ottocentesco, che fra i suoi primi scopi dichiarati ebbe appunto quello di impedire il mescolamento fra le razze umane, sempre nocivo per la razza "superiore" (cioè i bianchi).
Da questo punto di vista, un passo avanti verso il vero e proprio razzismo, inteso come teoria scientifica, si ebbe piuttosto negli Usa, dove nel dibattito infuocato relativo all'abolizione della schiavitù a metà del XIX secolo, uno degli argomenti azzardati dai suoi sostenitori fu che neri (e indiani) non fossero "davvero" esseri umani, ma andassero catalogati in una categoria diversa, alla quale non si potevano applicare le argomentazioni umanitarie proposte dagli abolizionisti. Non essendo i neri uomini, non aveva senso essere "umanitari" con loro.

Il razzismo nel mondo contemporaneo [modifica]
Americhe [modifica]
Negli USA [modifica]
L'atteggiamento di discriminazione razziale su base pseudo-scientifica fu rafforzato dalle guerre indiane, per giustificare il genocidio, protratto per decenni, delle popolazioni pellerossa per sottrarre loro le terre: gli indiani non erano "davvero" esseri umani, e quindi nemmeno a loro si applicavano le considerazioni "umanitarie". La conquista del continente americano portò ad un totale di morti indigeni che secondo le stime più recenti oscilla tra i sessanta ed i cento milioni [10] , di cui venti milioni durante le guerre indiane nel Nord America. Queste cifre lo eleggono tristemente come il più grande genocidio nella storia dell'umanità. L'efficienza dello sterminio indiano americano portò Adolf Hitler a citarlo come esempio pratico per la soluzione finale[11] fin nella prima edizione del Mein Kampf (la mia battaglia)[12], manuale e base ideologica dell'ideologia Nazionalsocialista.

Membri del Ku Klux Klan utilizzano per terrorizzare le loro vittime la croce infuocata, simbolo della identità cristiana da loro rivendicataNell'America coloniale, ancor prima che la schiavitù coloniale divenisse completamente basata su basi razziali, gli schiavi di origine africana erano usati a fianco degli schiavi bianchi, di solito vincolati alla condizione servile da contratti con una scadenza determinata, in gran parte firmati per pagare le spese di trasferimento nel Nuovo Mondo. Alla scadenza di tali contratti gli europei che erano sopravvissuti recuperavano la libertà (non era previsto che i neri potessero recuperare la libertà alla scadenza di un certo periodo di tempo).

A seguito di una serie di rivolte che coinvolsero questo tipo di coloni, però, negli Usa si arrivò a fare a meno degli schiavi bianchi già nel XVIII secolo, riservando la schiavitù alle persone di origine africana, che non potevano contare, a differenza dei bianchi, di solidarietà religiose e etniche da parte di componenti liberi della società bianca dominante. In questo modo, "razza" e condizione sociale vennero a coincidere negli Usa, in modo tale che ancor oggi negli Stati Uniti è difficile separare i due concetti.

Subito dopo l'indipendenza (avvenuta nel 1776) le leggi statunitensi del 1790 sulla naturalizzazione garantivano la cittadinanza solo alle "persone bianche libere", il che significava generalmente che veniva concessa solo a coloro che erano di origine anglosassone.

Quando la popolazione americana divenne culturalmente meno omogenea, verso gli anni '40 del XIX secolo, con l'aumento dell'immigrazione dall'Europa meridionale e orientale, negli USA si rese necessario chiarire chi fossero i "bianchi". Nacque così una suddivisione di quelli che oggi sono chiamati «caucasici» in una gerarchia di diverse razze, stabilite "scientificamente", e al cui vertice erano gli anglosassoni e i popoli nordici.

Per approfondire, vedi la voce Razzismo negli Stati Uniti.

Europa [modifica]
In Germania [modifica]
Per approfondire, vedi le voci Politica razziale nella Germania nazista e Shoah.

Il tema del razzismo durante il governo nazionalsocialista in Germania, rivolto alla popolazione ebraica, ma anche verso molti gruppi etnici come Rom, Sinti e diverse categorie sociali (riunite sotto la definizione di Untermenschen) viene ampiamente trattato sotto la voce Olocausto.

In Italia [modifica]
Tra il XIX e il XX secolo [modifica]
A partire dall'unificazione d'Italia, gran parte del sistema politico e culturale italiano, influenzato dalle teorie internazionali del razzismo scientifico del positivismo e dell'eugenetica si orientò verso posizioni razziste e anti-meridionali (e molti studiosi meridionali sostennero a loro volta l'anti-meridionalismo). Di questo clima politico e culturale furono artefici tra l'altro le pubblicazioni del criminologo Cesare Lombroso (le cui teorie tentavano di dimostrare la possibilità di identificare l'"innata natura criminale" di alcuni individui attraverso le loro caratteristiche fisiche, e i cui studi si incentrarono spesso sui "briganti" meridionali), le teorie di Luigi Pigorini e soprattutto di Giuseppe Sergi (messinese, fondatore della Società Romana di Antropologia) e di Alfredo Niceforo (castiglionese, presidente della Società Italiana di Antropologia e della Società Italiana di Criminologia), che scriveva:«La razza maledetta, che popola tutta la Sardegna, la Sicilia e il mezzogiorno d'Italia dovrebbe essere trattata ugualmente col ferro e col fuoco - dannata alla morte come le razze inferiori dell'Africa, dell'Australia, ecc.».

Si ricordano inoltre, Enrico Ferri, secondo cui la minore criminalità nell'Italia settentrionale derivava dall'influenza celtica, Guglielmo Ferrero, Arcangelo Ghisleri, nonché moltissimi altri magistrati, medici, psichiatri, uomini politici, che influenzarono grandemente l'opinione pubblica italiana e mondiale.

Non furono posizioni isolate, al contrario era la convinzione «scientifica» della quasi totalità degli uomini di cultura europei, nonché dei ceti dominanti e dell'opinione pubblica dell'epoca. Già nel 1876 la tesi razzista fu pienamente avallata dalla commissione parlamentare d'inchiesta sulla Sicilia che concluse:

«la Sicilia s'avvicina forse più che qualunque altra parte d'Europa alle infuocate arene della Nubia; in Sicilia v'è sangue caldo, volontà imperiosa, commozione d'animo rapida e violenta»[13][14].
Cioè le stesse caratteristiche «psico-genetiche» che, con lo stesso identico linguaggio, i razzisti di tutto il mondo attribuivano alla cosiddetta «razza» nera. E di questo erano accusati i mediterranei: di essere «meticci», discendenti di popolazioni preistoriche di razza africana e semitica.

Questo clima era stato determinato da tre fattori:

Subito fin dall'unità era stata attuata una politica di tipo coloniale nei confronti del sud (spesso descritto nei giornali dell'epoca come l'«Africa italiana»), che aveva portato uno stato di sottosviluppo economico e sociale sconosciuto nell'ex Regno delle Due Sicilie.
Il sud era stato politicamente abbandonato alla criminalità; la giustificazione per questa politica, da parte del governo, fu il considerare questa criminalità inestirpabile, essendo intrinseca a una cultura inferiore e primitiva, frutto di un popolo che, nelle sue classi sociali più basse, oltre ad essere «reo» di avere avuto influenze genetiche negroidi e semitiche, era un popolo di «criminali nati» secondo la terminologia del Lombroso.
Erano state trascurate le industrie e le infrastrutture del sud a favore di quelle del nord, in gran parte perché questa era la parte più ricca e sviluppata.
L'accettazione già a fine ottocento della teoria dell'esistenza di almeno due razze in Italia, la eurasica, giapetica ariana e padana e la eurafricana afro-semitica[15][16][17], contribuì in modo determinante alla nascita di un diffuso razzismo anti-meridionale nel nord Italia e in tutto il mondo. Basandosi sulle dichiarazioni degli scienziati italiani molti Stati degli USA diedero luogo a forme esplicite di discriminazione nei confronti dei meridionali (in particolare gli stati di Alabama, Georgia, Louisiana). Più in generale gli immigrati italiani venivano separati al loro arrivo a Ellis Island (New York) e computati in due diversi registri: razza iberica/mediterranea da una parte e razza alpina dall'altra. Divisione ufficialmente avallata dalla Commissione Dillingham del Senato degli Stati Uniti [18] che nel 1911 ribadì la stretta correlazione degli Italiani del Sud con gli Iberici della Spagna ed i Berberi del Nord Africa. Il succitato "Dictionary of Races and Peoples[19]" precisò inoltre l'appartenenza etnica al Sud Italia dell'intera penisola propriamente detta, compresa la Liguria ("All of the people of the peninsula proper and of the islands of Sicily and Sardinia are South Italian. Even Genoa is South Italian" pg. 81). La "razza Hamitica", di cui gli "Italiani del Sud" avrebbero fatto parte, pur non essendo connessa alla razza nera, avrebbe avuto alcune tracce di sangue negroide in Nord Africa ed in alcune zone della Sicilia e della Sardegna, con rilevanza non solo nell'aspetto fisico, ma anche nel carattere e nelle inclinazioni»[20].

Ai siciliani, infatti, per via della più recente commistione (nel periodo arabo) con mori e saraceni, spettava nel profondo sud americano un trattamento ancora peggiore ed erano sottoposti ad un vero e proprio apartheid economico, politico e sociale. All'epiteto «dago» riferito agli italiani in generale (forse dal nome spagnolo Diego o più probabilmente da dagger = accoltellatore) veniva loro in più anteposto l'aggettivo «black» (nero) per rimarcare la loro presunta «negritudine». In Louisiana prima della seconda guerra mondiale, anche se nati in America non potevano frequentare le scuole per i soli bianchi ed erano perciò obbligati a frequentare le scuole dei neri[21][22]. In Alabama erano formalmente soggetti alle leggi anti-miscegenation[22]. La loro paga era generalmente inferiore a quella degli stessi neri, inoltre erano spesso minacciati dal Ku Klux Klan e linciati per futili motivi: documenti locali affermano che gli «italiani» furono il gruppo più numeroso di vittime di linciaggio dopo i neri (e secondo quanto riportarono alcune fonti dell'epoca[22], furono il 90% di tutti i linciati che immigravano dall'Europa).

Durante il fascismo [modifica]
« -Punto 6 Esiste ormai una pura "razza italiana".
Questo enunciato non è basato sulla confusione del concetto biologico di razza con il concetto storico-linguistico di popolo e di nazione ma sulla purissima parentela di sangue che unisce gli Italiani di oggi alle generazioni che da millenni popolano l'Italia. Questa antica purezza di sangue è il più grande titolo di nobiltà della Nazione italiana.
-Punto 7


È tempo che gli Italiani si proclamino francamente razzisti. »
(Da "La difesa della razza", direttore Telesio Interlandi, anno I, numero1, 5 agosto 1938, p. 2. Precedentemente pubblicato da "Il Giornale d'Italia" il 15 luglio 1938 con il titolo: "Il Fascismo e i problemi della razza")

Il razzismo ebbe un ruolo importante nel movimento fascista se non dalla sua instaurazione al potere nel 1922, sicuramente e operativamente dal 1937 col regio decreto legge n. 880. Essendo impossibile sostenere l'origine nordica di tutti gli italiani, per quasi tutto il ventennio il regime sostenne teorie razziste alternative, le sole che gli consentivano di sostenere l'unità di tutti gli italiani. Dunque secondo l'italianismo fascista la razza italiana sarebbe stata il prodotto di un processo storico-culturale, o secondo la terminologia di Julius Evola «un'identità dovuta alla comune tradizione spirituale» (la «civiltà romana») che nella retorica politica era «madre di tutte le civiltà», e che aveva avuto origine dall'antico popolo romano (che secondo gli arianisti erano di stirpe nordica[23]).

L'indirizzo biologico, pur già presente, si affermò su quello culturale solo a partire dal 1936, quando fu possibile - sfruttando l'alleanza con la Germania nazista - operare una nuova sintesi con la quale sostenere, in netta contraddizione con le precedenti teorie internazionali, l'esistenza di un'unica ipotetica «razza italiana» interamente ariana. Ciò avvenne nel volgere di pochi anni e portò nel 1938 alla promulgazione del «Manifesto della razza». In esso si sostenne che la «fisionomia razziale» di tutti gli italiani «dalle Alpi alla Sicilia» era data una volta per tutte dai Longobardi e quindi i «mediterranei» (par. 5 del Manifesto) pur avendo caratteristiche proprie sarebbero comunque stati un «gruppo sistematico minore» della razza ariana.

Sottratti per decreto i meridionali dall'apparentamento con le razze afro-semitiche (par. 8 del Manifesto) ebbe luogo il varo di provvedimenti, le cosiddette leggi razziali fasciste, principalmente contro le persone di origine semitica e/o di religione ebraica, ma anche contro le popolazioni delle colonie africane e contro il meticciato. Leggi che furono responsabili della parte organizzativa della deportazione e uccisione di migliaia di uomini, donne e bambini tra ebrei, zingari, e appartenenti ad altre etnie, operata durante la successiva occupazione nazista.

Dal dopoguerra ad oggi [modifica]
Per approfondire, vedi la voce Razzismo in Italia.

Nonostante il capolinea del razzismo scientifico, rigettato come pseudoscienza subito dopo la seconda guerra mondiale, non fu modificata la mentalità formatasi in quasi un secolo di propaganda. Alla fine del novecento, al razzismo si sono aggiunti fenomeni di xenofobia, avversione e intolleranza contro diverse etnie, popoli e culture religiose, nonché omofobia e intolleranze incrociate rispetto ai cittadini originari di diverse regioni italiane.

In Polonia a cavallo della II guerra mondiale [modifica]
In Europa i nazisti riuscirono quasi a imporre un dogma mitologico, prima contro gli ebrei poi contro i polacchi, che privava tutti coloro che venivano definiti non ariani dei diritti civili e del lavoro. Questo aspetto ricalca in parte lo stesso che i polacchi applicavano precedentemente contro la popolazione ebraica.[24] Il governo polacco in esilio, il suo esercito, i suoi rappresentanti ufficiali conservarono immutati questi pregiudizi. Durante l'occupazione, infatti, i polacchi aiutarono il nemico nel maltrattamento e nel massacro degli ebrei. Un polacco ebbe a dire:La fortuna è venuta a noi tramite Hitler. Egli ci sta preparando una Polonia senza Ebrei.[25] Vi furono, tuttavia, alcune nobili eccezioni.[26] Dopo la liberazione, secondo alcune fonti [27] la maggior parte della popolazione conservò un'opinione positiva della repressione. Nel luglio 1946 uno spaventoso pogrom antisemitico nel villaggio polacco di Kielce costò la vita a quarantun ebrei. In Polonia persino dopo la guerra, alcuni membri della Chiesa cattolica continuarono ad avere una parte di primo piano nell'incoraggiare e nel mantenere vivo l'antisemitismo [28]

Asia [modifica]
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Australia [modifica]
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La questione aborigena e la generazione rubata [modifica]
Africa [modifica]
In Sudafrica e Namibia [modifica]
Per approfondire, vedi le voci Apartheid e Sudafrica nell'era dell'apartheid.

L'apartheid o separazione in lingua afrikaans è stata la politica di segregazione razziale istituita dal governo di etnie bianche (Afrikaner e di origine inglese) del Sudafrica nel secondo dopoguerra, rimasta in vigore fino al 1994. L'apartheid fu applicato anche alla Namibia, fino al 1990 amministrata dal Sudafrica. La segregazione era applicata a tutti i non bianchi, asiatici e figli di genitori di etnie assortite compresi. L'apartheid è stato proclamato crimine internazionale da una convenzione delle Nazioni Unite, votata dall'Assemblea Generale nel 1973 e entrata in vigore nel 1976, ed è stato recentemente inserito nella lista dei crimini contro l'umanità perseguibili dalla Corte penale internazionale.

In Ruanda [modifica]
Per approfondire, vedi le voci Genocidio del Ruanda e Origini di Hutu e Tutsi.

La presunta questione razziale ruandese, per l'informazione occidentale si rivela principalmente nel genocidio del 1994, uno dei più sanguinosi episodi della storia del XX secolo, dove vennero massacrate tra le 800.000 e 1.071.000 persone. Le vittime furono in massima parte di etnia Tutsi (Watussi); i Tutsi erano una minoranza rispetto agli Hutu, gruppo etnico maggioritario a cui facevano capo i gruppi principalmente responsabili dell'eccidio. I massacri non risparmiarono una larga parte di Hutu moderati. A dispetto dell'atrocità del fatto, si riscontra che dal punto di vista della genetica di popolazione i due gruppi sono estremamente affini, e come nella stragrande maggioranza dei fenomeni razzisti le differenze sono principalmente di tipo sociale e culturale.

Note [modifica]
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Bibliografia [modifica]
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Adolf Hitler Mein Kampf Schutzumschlag Franz Eher Verlag München, 1925 prima stesura originale del primo volume DHM, Berlin
Giorgio Galli (a cura di) Il mein kampf di Adolf Hitler. Le radici della barbarie nazista ISBN 88-7953-113-1
Giovanni Bianco, Razzismo, in Digesto IV, Discipline Pubblicistiche, Utet, Torino, 1996, XII.
Rosetta Brucculeri, Francesco La Rocca, Damiano Zambito, Immigrazione extra-CEE e razzismo in provincia di Agrigento, Agrigento 1991.
Alberto Burgio, L'invenzione delle razze: studi su razzismo e revisionismo storico, Manifestolibri, Roma 1998, ISBN.
Alberto Burgio (cur.), Nel nome della razza. Il razzismo nella storia d'Italia, Il Mulino, Bologna 1999.
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Michele Loré, Antisemitismo e razzismo ne "La Difesa della razza"(1938-1943), Rubettino, Soveria Mannelli (Cz), 2008
Luigi Luca e Francesco Cavalli-Sforza, Chi siamo: la storia della diversità umana, Mondadori, Milano 1995.
Luigi Luca Cavalli-Sforza, Geni, popoli e lingue, Adelphi, Milano 1996.
Luigi Luca e Francesco Cavalli-Sforza, Razza o pregiudizio? Evoluzione dell'uomo fra natura e storia, Einaudi scuola, Milano 1996.
Centro Furio Jesi (a cura di), La menzogna della razza. Documenti e immagini del razzismo e dell'antisemitismo fascista, Grafis, Bologna 1994.
Ashley Montagu La razza Analisi di un mito, Einaudi 1966, PBE Scienza, pag 447.
Niceforo, Alfredo. Le due Italie - L'Italia barbara contemporanea (1898).
Sergi, Giuseppe. Arii e italici. Attorno all'Italia preistorica, (1898) Torino, Ed. Bocca.
Sergi, Giuseppe. Origine e diffusione della stirpe mediterranea (1895) Roma, Ed. Dante Alighieri.
Sergi, Giuseppe. Italiani del Nord e italiani del Sud (1901).
R. N. Bradley (1912) Malta and the Mediterranean Race, London
Voci correlate [modifica]
Apologia del fascismo
Antisemitismo
Apartheid
Classismo
Destra radicale
Etnocentrismo
Fascismo e questione ebraica
Joseph Arthur de Gobineau
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Collegamenti esterni [modifica]
Convenzione internazionale sull'eliminazione di ogni forma di discriminazione razziale Adottata dall' Assemblea generale dell'ONU nel 1965 - [2]
Alto Commissario delle Nazioni Unite per i diritti dell'uomo - CERD Comitato per l'eliminazione delle discriminazioni razziali - Rapporto speciale sulle forme di contemporanee di razzismo, di discriminazione razziale, di xenofobia e dell'intolleranza che vi è associata [3]
La Conferenza mondiale dell'ONU contro il razzismo, la discriminazione razziale, la xenophobia e l'intolleranza che vi è associata - tenutasi a Durban - Sud Africa nel 2001 [4]
UNESCO - Lotta contro il razzismo, la discriminazione e la xenofobia [5]
Consiglio d'Europa Commissione europea contro il razzismo e l'intolleranza - [6]
EUMC Centro europeo di monitoraggio sul razzismo e la xenofobia [7]
L’incitamento all’odio razziale tra realizzazione dell’eguaglianza e difesa dello Stato
Il razzismo.
(EN) Four statements on the race question - UNESCO (1969) (testo in formato pdf).
Dossier razzismo in Ticino (CH)
SOS Razzismo Italia
38 di 9422 - 05/12/2010 19:24
duca minimo N° messaggi: 38149 - Iscritto da: 29/8/2006


OGGI UN EXTRACOMUTARIO HA RASO AL SUOLO UNA COMITIVA DI CICLISTI : ERA DROGATO E SENZA PATENTE ......

STANOTTE HANNO FERMATO UN TUNISINO PER ACCERTAMENTI ....scomparsa bimba di 13 anni a BERGAMO .....


http://www.youtube.com/watch?v=PzYbyUhDG7k


Ma che bel mondo di merda che vi siete costruiti, ma quanti complimenti che vi siete meritati
Allora eccoti seduto con le mani nei i capelli che ti chiedi: «Come mai, come mai?»
Anche quelli a cui volevi tanto bene sono pronti al tradimento come mai anche tu al centro nonostante il tuo stipendio?
Non è più questa la vita che vi avevano promesso ed i bisogni ed i diritti che vi avevano concesso
Restano solo bacarozzi e non andranno via perché lo sporco da cui vengono vi si è incrostato nella vita
E guardate il vostro mondo come perde, come arranca, tutti quanti comandanti di una nave che già affonda
Ecco qua le vostre anime nell'inferno dei cialtroni a cercare nuovi trucchi, nuove giustificazioni!

Vi chiederete: «Come mai, come mai, come mai?»
Vi chiederete: «Come mai, come mai, come mai?»
Vi chiederete: «Come mai, come mai, come mai?»
Vi chiederete: «Come mai, come mai, come mai?»

Vi chiederete: «Come mai?» è perché avete rinunciato a difendere il futuro di ciò che vi è stato dato
E per questo i vostri figli non vi sanno rispettare, non conoscono il rispetto, non hanno niente da imparare
Sempre allegri e pronti a tutto alle cinque di mattina imbottiti di pasticche, merendine e cocaina
Sono questi i vostri giovani che vi dovevano salvare, sono andati fuori strada con la macchina del padre
Sono questi i vostri giovani a cui avevate insegnato i valori della pace e gli errori del passato
Sono questi i vostri giovani, democratici, sinceri, rimbambiti da giochetti, puttanate e cellulari!

Vi chiederete: «Come mai, come mai,come mai?»
Vi chiederete: «Come mai, come mai,come mai?»
Vi chiederete: «Come mai, come mai,come mai?»
Vi chiederete: «Come mai, come mai,come mai?»

Come mai i vostri figli, la vostra unica speranza, vi ripetono gli slogan di voi coglioni anni Sessanta?
I pagliacci di Indymedia, i nuovi rivoluzionari tra black block, pacifisti e disobbedienti vari
Sempre colpa dell'America per il nuovo partigiano, ma poi i nemici sono questi: una lattina ed un panino
E allora guarda come frignano quando arrivano gli sbirri, sotto sotto, gratta gratta, sono loro i veri yankee
Sono loro il risultato del disastro nucleare, sono loro i veri figli di questa sporca falsa pace
Con la faccia di Che Guevara e le bandiere arcobaleno, sono loro i veri figli del sogno americano!

Vi chiederete: «Come mai, come mai, come mai?»
Vi chiederete: «Come mai, come mai, come mai?»
Vi chiederete: «Come mai, come mai, come mai?»
Vi chiederete: «Come mai, come mai, come mai?»

E intanto fuori dall'Europa come in "Zombie" di Romero arrivano le masse senza soldi, né lavoro
E poi da tutti i continenti che avete derubato, imbottito di stronzate e poi abbandonato
Le masse impoverite, ingannate dall'astuzia di chi ha fatto del mercato la sua unica giustizia
Quelli mica giocano col videotelefonino, non c'hanno mica le lenzuola che ci rimbalza coccolino
Quelli mica hanno la mamma che gli prepara il caffelatte con il dolce, il cornettino, con la vestaglia e le ciabatte
Con il padre antirazzista che porta a spasso il cane mentre sfrutta allegramente le puttane nigeriane
Altro che rapimenti in Sardegna e in Aspromonte, niente film anni Settanta con partiti e finte bionde
Quelli poche chiacchiere e se la Lega ce l'ha duro, quelli c'hanno solo i denti e te li cacciano nel culo!

Vi chiederete: «Come mai, come mai, come mai?»
Vi chiederete: «Come mai, come mai, come mai?»
Vi chiederete: «Come mai, come mai, come mai?»
Vi chiederete: «Come mai, come mai, come mai?»

Ci chiederete: «Come mai?», ma noi non vi risponderemo, veniteci a cercare, ma noi non ci saremo
Ecco che va in malora il vostro mondo degli uguali e se tutto questo è il bene allora sì che siamo il male
E se parliamo di coraggio è perché siamo preparati a combattere per nulla nelle strade, negli stadi
In un mondo di rovine destinato a rovinare dando fuoco ai cassonetti quando arrivano i blindati
Quindi eccoti seduto con le mani nei capelli senza soldi, senza storia, senza terra, senza figli
Non c'è un punto di ritorno in questa tua maledizione, non c'è un punto di raccordo e non c'è una soluzione
Questa volta non finisce, non arrivano gli inglesi, non c'è più una bomba atomica da tirare ai giapponesi
È la fine del tuo mondo, ma noi non ci saremo e la tua triste storia falsa nemmeno la vedremo!

Vi chiederete: «Come mai, come mai, come mai?»
Vi chiederete: «Come mai, come mai, come mai?»
Vi chiederete: «Come mai, come mai, come mai?»
Vi chiederete: «Come mai, come mai, come mai?»

Vi chiederete: «Come mai, come mai, come mai?»
Vi chiederete: «Come mai, come mai, come mai?»
Vi chiederete: «Come mai, come mai, come mai?»
Vi chiederete: «Come mai, come mai, come mai?»
39 di 9422 - 05/12/2010 20:56
protomega N° messaggi: 23994 - Iscritto da: 02/3/2007
Ciao Duca,condivido tutto fino ad un certo punto....
mio padre morì in un incidente..
un italiano che si ritrovò col peso sulla coscienza una cosa più grossa di quello che si potesse mai aspettare...
tentò la fuga,solo l'intervento di un vigilantes ne fermò il tentativo di sfuggire alla propria responsabilità....quest'uomo aveva più di 50 anni,percui più che maturo..
a Roma poco tempo fà un ragazzo con un pugno sferrato ha mandato all'altro mondo una ragazza di un altro paese...
personalmente mi è capitato di avere a che fare con una persona musulmana e di litigarci venendo alle mani,fui e cercai di essere il più spietato e cattivo in modo da intimorirlo...andò solo bene x fortuna di tutti e due...
qualcosa di storto e qualcuno si sarebbe rovinato....
ci vuole più misura da parte di tutti....
ne sentiamo tutti i giorni....
e partendo dall'alto verso il basso non c'è da fare affidamento su nessuno...
si pensa solo ad arrivare più in alto possibile il resto non conta....
io ho una bimba piccola 3 anni comincia ora a dialogare in qualche maniera a raccattare qualche frase da dire...
ti dirò questi bimbi sono più fortunati e hanno la possibilità di apprendere meglio di prima...
mi capita di uscire con qualche parola fuori posto,all'asilo già gli insegnano a comportarsi bene anche a livello psicologico e ti dico che a volte sono disarmato,ha solo tre anni....
bene,io penso che il resto dobbiamo mettercelo noi con le giuste misure(il più possibile)e sperare che tutto vada per il meglio e nient'altro....
chi si aspettava ciò che è successo a taranto....succede,succede e succederà...
40 di 9422 - 05/12/2010 21:26
protomega N° messaggi: 23994 - Iscritto da: 02/3/2007
e mi dimenticavo...
dove è successo il fattaccio è veramente una strada da 200km all'ora....
questa tragedia e tante altre possono accadere anche d'estate...io ci bazzico da quelle parti....
un altra ancora...
gli extracomunitari se combinano altre minchiate anche meno importanti gli fanno le spedizioni punitive,inoltre vengono sempre sottopagati assunti da noi italioti....
poi sempre noi li assumiamo per far fare a loro cose di cui non ci vogliamo sporcare le mani...
in poche parole cose da codardi....
ma parlo in generale,poichè italiota lo sono anche io...
e come me tanta altra brava gente....e anche parecchi di questi stranieri lo sono...
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