Fanno fallire una squadra di calcio, il Chievo Verona, con un mostruoso paradosso. Non le concedono di sistemare le proprie pendenze fiscali di 16 milioni a causa di una legge fatta per salvare le aziende dalle conseguenze della pandemia. E mentre il Consiglio di Stato, con un'acrobatica sentenza, spegne anche le sue residue speranze, il nuovo governo patriottico è già al lavoro per rendere ancora più odioso quel paradosso. Evita il fallimento delle altre squadre consentendogli di sistemare pendenze fiscali di 889 milioni, proprio con la scusa che c'è stata la pandemia. Benvenuti in Italia, patria del diritto. Non si può nemmeno immaginare cos'ha provato il proprietario del Chievo Luca Campedelli, titolare di una famosa industria dolciaria, la veronese Paluani, che ha subìto anch'essa i catastrofici riflessi del fallimento della squadra di calcio. Il Chievo, "che fino all'emergenza pandemica", dice il suo avvocato Stefano De Bosio, "era in re" viene escluso dalla Federcalcio dal campionato di B perché il decreto del governo di Giuseppe Conte sospende l'emissione delle cartelle esattoriali fino al settembre 2021 e quindi il club veronese non può materialmente accedere alla rateizzazione delle imposte. Le altre squadre professionistiche, invece, sono salve perché hanno rateizzato le tasse prima di quel decreto. Non bastasse, "il fisco e la Federcalcio si sono trovate a gestire da settembre 2021", insiste De Bosio, "società gravemente insolventi col medesimo fisco, e per non fare emergere il disastro hanno dovuto concedere di non pagare le imposte correnti. La cosa è durata, per effetto di provvedimenti del precedente governo, fino al 30 novembre 2022: è così divenuto lecito persino non pagare alle relative scadenze le ritenute fiscali e previdenziali sugli stipendi". E ora un nuovo regalo, alla faccia di Campedelli, scrive MF-Milano Finanza.

Il quale avrà avuto modo di riflettere sul destino che la lobby del calcio riserva ai non allineati. Ma anche al rapporto incestuoso che lega quel mondo al Palazzo in un vortice di conflitti di interesse Non che fra destra e sinistra ci siano profonde differenze di sensibilità rispetto al calcio. Va però detto che la maggioranza politica responsabile dell'ultimo scandaloso regalo ai potenti club di serie A, gentilmente omaggiati della possibilità di pagare le tasse in 60 comode rate proprio mentre infuria la tempesta giudiziaria sulle plusvalenze, è identica (pur con sigle leggermente diverse) a quella che governava vent'anni fa, al tempo di altri imbarazzanti omaggi fiscali. Il primo addirittura natalizio. Il 24 dicembre 2002 il secondo governo presieduto dal padrone del Milan Silvio Berlusconi concede di spalmare in dieci anni i debiti delle squadre di calcio, ovviamente compreso il suo Milan che ne aveva per 242 milioni.

Nel 2003, dopo la finale di Champions League tutta italiana fra Milan e Juventus, vinta dal club di Berlusconi ai rigori, viene recapitato al Fisco un singolare interpello. Si chiede di sapere se è corretto che sui diritti televisivi della Champions non si paghi l'Iva. La risposta è la seguente: "Certo che no!". Con la motivazione che "la prestazione" avviene a Ginevra, in Svizzera, non appartenente all'Unione europea. Passi che l'utilizzo di quei diritti avvenga in Italia. Milan e Juve ringraziano. Passa qualche mese e la Lazio di Sergio Cragnotti sta fallendo. Deve al fisco 157 milioni e non sa dove prenderli. Allora si fa avanti un imprenditore del settore delle pulizie, Claudio Lotito, che si offre di comprare. Non prima di aver ottenuto, però, di pagare le imposte, scontate, in 23 anni. Lo prevede un decreto dello stesso governo Berlusconi, che autorizza l'Agenzia delle Entrate a concludere transazioni con i contribuenti morosi. E il caso vuole che due decenni dopo sia lo stesso Lotito a manovrare per far ottenere ai club di serie A l'ultima super rateizzazione. Stavolta da una posizione ben diversa. È senatore del partito di Berlusconi, senatore a sua volta come anche Adriano Galliani, l'amministratore delegato del Monza calcio: il nuovo club del Cavaliere. A dimostrazione che il parlamento e la politica esercitano per i padroni del pallone un'attrazione irresistibile. Fin dai tempi del fascismo. Con la tradizione che si afferma sempre di più dal dopoguerra in poi. Nomi pesanti del calcio sbarcano in politica. "Un grande Napoli per una grande Napoli" è lo slogan della campagna elettorale di Achille Lauro. E può il presidente della Roma Dino Viola evitare di candidarsi al senato con la Dc nel 1983 dopo che i giallorossi hanno appena vinto il secondo scudetto della storia? In Senato occupa il seggio democristiano che fino al 1979 è stato dell'ex presidente della Juve e della Federcalcio Umberto Agnelli. E si ritrova collega di partito del presidente del Bari Antonio Matarrese, in procinto di assumere la presidenza della Federcalcio. Poltrona che vent'anni più tardi conquisterà un altro onorevole democristiano, allora in forza all'altro ramo del parlamento: Giancarlo Abete. E si potrebbe andare avanti, ricordando anche le decine di calciatori che hanno scelto la strada della politica. Ma il calcio è così tenuto in palmo di mano dalla politica da riuscire a incassare favori anche a sua insaputa. Succede nel 2019 con il primo governo grilloleghista di Conte. L'articolo 5 del cosiddetto decreto "Crescita" per favorire il "rientro dei cervelli" stabilisce che chi viene a lavorare in Italia per almeno due anni dopo averne trascorsi almeno due all'estero paga le tasse su appena il 30 per cento del reddito. Ma siccome la norma non prevede paletti di alcun tipo, la cosa può riguardare tutti. E chi normalmente viene dall'estero a lavorare in Italia, per giunta con redditi elevatissimi? Ovvio: i calciatori e gli allenatori. L'Agenzia delle Entrate non sa dire quante tasse abbiano risparmiato dal 2019 allenatori e calciatori. Ma è certo che grazie a questa bella pensata del governo a trazione M5s una bella fetta degli stipendi stellari dei lavoratori della pedata la paghiamo noi.

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January 30, 2023 02:50 ET (07:50 GMT)

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