Rimbalzo del fatturato del 2021 (+19%) e prospettive di crescita anche per il 2022 (+6,3%). Più del 60% delle medie imprese prevede di investire entro il prossimo triennio nelle tecnologie 4.0 e nel green; il 52% che l'ha già fatto conta di superare i livelli produttivi pre-Covid entro quest'anno. Nessuna inferiorità rispetto ai peer stranieri che sono anzi meno produttivi, tanto che in 10 anni circa 210 medie imprese nazionali sono passate in mano straniera.

E' l'identikit delle medie imprese industriali italiane messo a fuoco nel XXI Rapporto a loro dedicato da Unioncamere, Area Studi Mediobanca e Centro Studi Tagliacarne.

Questo universo di 3.174 imprese leader del cambiamento è pronto a cogliere anche le opportunità di crescita derivanti dal Pnrr: il 59% delle medie imprese si è già attivato o si appresta a farlo. Guardando al futuro, tuttavia, la staffetta generazionale rischia di rallentarne il cammino: per un'impresa su 4 il passaggio o non è perfezionato o rappresenta un vero ostacolo.

"Le medie imprese industriali italiane sono la spina dorsale del capitalismo familiare, come dimostra l'esperienza degli ultimi 25 anni. A ragione possono definirsi la locomotiva del nostro sistema imprenditoriale, rappresentando un fattore di resilienza e ammodernamento continuo del sistema produttivo, grazie a una elevata capacità a investire nella Duplice transizione green e digitale, rispetto alla quale il capitale umano rappresenta l'asset intangibile più importante", ha commentato il presidente di Unioncamere, Andrea Prete, che ha aggiunto: "L'analisi che abbiamo condotto insieme a Mediobanca quindi sfata, con l'evidenza dei numeri, diversi luoghi comuni sulla governance familiare delle imprese, che quando accompagnata da una adeguata proiezione strategica e manageriale, rappresenta un modello di indubbio successo".

"Oltre 25 anni di performance migliori rispetto all'intera economia nazionale, confermate e anzi rafforzate nelle crisi dell'ultimo quindicennio, consentono alle nostre medie imprese manifatturiere di affrontare con fiducia scenari che restano incerti e sfidanti", ha dichiarato Gabriele Barbaresco, direttore dell'Area Studi Mediobanca.

"La strategia di crescita della nostra impresa, anche quando comporta l'acquisizione di altre aziende, punta a valorizzare la storia del management della precedente proprietà per tenere conto della spinta imprenditoriale di ciascuna realtà, inserendola però in un più ampio contesto strategico e di opportunità di mercato", ha sottolineato Giandomenico Auricchio, amministratore delegato di Gennaro Auricchio Spa.

Dall'indagine emerge che le medie imprese manifatturiere italiane affrontano le incertezze della congiuntura forti di una storia che le ha viste fare meglio del resto dell'economia proprio nei momenti più turbolenti. Secondo un indicatore di performance, dal 1996 hanno maturato rispetto al Pil un vantaggio del 34,1%, la maggior parte del quale sviluppato dal 2009. Nel confronto con le grandi imprese manifatturiere italiane, nello stesso periodo, le medie hanno registrato migliori performance sotto molti punti di vista: hanno ottenuto una crescita del fatturato più che doppia (+108,8%), centrato un maggiore aumento della produttività (+53%) e garantito una migliore remunerazione del lavoro (+62,4%). Si tratta di successi ottenuti con un significativo ampliamento della base occupazionale (+39,8%), che ne ha fatto un modello capitalistico veramente inclusivo e partecipativo, tanto da consentire loro di affermarsi anche a livello internazionale: la loro produttività è infatti superiore del 21,5% a quella delle omologhe tedesche e francesi, un risultato fuori dall'ordinario, se si pensa che la nostra manifattura nella sua interezza accusa invece un ritardo del 17,9% rispetto agli stessi Paesi.

Non è un caso che abbiano attratto l'attenzione degli stranieri: oggi ne avremmo circa 210 in più se queste non fossero passate nell'ultimo decennio sotto il controllo di azionisti esteri, un quarto dei quali proprio tedeschi e francesi.

Un aspetto peculiare delle medie imprese riguarda il fatto che ricchezza e occupazione sono prodotte prevalentemente in Italia. L'88,2% non ha una sede produttiva all'estero e solo il 3% realizza in stabilimenti stranieri oltre il 50% dell'output. Il tema del re-shoring appare quindi di poca rilevanza per queste aziende che, invece, partecipano attivamente alle catene globali del valore: l'88,8% si avvale di fornitori stranieri, ottenendo in media il 25% delle proprie forniture. Inoltre, la quota di vendite destinata all'estero è pari al 43,2% del fatturato.

Le performance realizzate dalle medie imprese sono tanto più lusinghiere se si considera che sono state raggiunte in un contesto non sempre favorevole. E' il caso del fisco: il tax rate effettivo è oggi attorno al 21,5% contro il 17,5% delle grandi, ma in passato lo spread è stato anche più ampio, oltre 8 punti nel 2011. Se nell'ultimo decennio le medie imprese avessero avuto la medesima pressione fiscale delle grandi avrebbero ottenuto maggiori risorse per 6,5 miliardi di euro. Una cifra monstre che avrebbe significato una maggiore dotazione di mezzi propri pari al 6,7% oppure un maggiore volume d'investimenti nella misura del 10,6%. D'altra parte, nel confronto con i competitor stranieri, le nostre medie imprese si percepiscono svantaggiate proprio in termini di struttura dei costi (50,5%), di efficienza della Pubblica Amministrazione (30,2%) e di qualità della dotazione infrastrutturale del Paese (22%).

com/lab

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2713:24 giu 2022

 

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