Il calcio affoga nei suoi debiti, nessuno lo soccorre.

La serie A è un iceberg in viaggio verso l'equatore, galleggia precario e sotto si scioglie tutto. Le casse e gli stadi sono vuoti, i conti dei club disastrati, la bancarotta un incubo reale.

Nell'ultima stagione, scrive il Corriere della Sera, le perdite aggregate delle 20 società sono state di 770 milioni, uno sprofondo rosso impossibile da gestire e fronteggiare in piena emergenza Covid, il nemico invisibile che sta facendo crollare il gigantesco castello di carte. Il calcio non è mai stato oculato, negli ultimi vent'anni ha chiuso in attivo una sola volta: nel 2016-'17 con appena 3 milioni. Nel ventennio dal 2000 al 2020 le perdite totali sono state circa 5 miliardi. Cattive gestioni o spericolati maghi della finanza, a seconda della prospettiva da cui si guarda, si è andati avanti ballando sul Titanic, spendendo e spandendo, salvando i conti grazie a plusvalenze e vendite non proprio cristalline.

Ora però c'è una linea limite invalicabile, entro il 1° dicembre vanno saldati circa 300 milioni di stipendi che in serie A hanno sfondato la cifra astronomica di 1,3 miliardi l'anno. I club non ce la fanno più, l'ingaggio medio netto è di circa 1,2 milioni, con una forbice larga tra i 31 milioni di Cristiano Ronaldo e i 40 mila euro di Martin Palumbo, 18enne centrocampista napoletano-norvegese dell'Udinese. Il costo del lavoro è un macigno, i club litigano da mesi con i giocatori per ridurre gli stipendi. Il Governo tace.

Nelle settimane scorse il presidente della Federcalcio, Gabriele Gravina, ha scritto a Uefa, Fifa, Eca e alle principali federazioni europee cercando un accordo per una riduzione degli stipendi. Gli è stato risposto che occorre una decisione collettiva presa dalla Uefa. Semmai arriverà non basterà, i contratti sono individuali, non esiste un organismo capace di regolarli tutti. Gravina però ha imboccato la strada giusta chiedendo l'introduzione di una sorta di salary cap per non far saltare il banco. Il presidente della Lega serie A, Paolo Dal Pino, tempo fa disse: "Il valore del giocatore si deve assestare su scala internazionale. Sarebbe controproducente se in Italia facessimo i virtuosi e negli altri Paesi no: verrebbe depauperato il patrimonio. Ha fatto bene Gravina a scrivere all'Uefa per un allineamento a livello europeo sui salari".

I giocatori non vogliono essere gli unici a far sacrifici. Leonardo Bonucci, difensore della Juventus e deciso a entrare nel consiglio dell'Aic, ha sottolineato: "La riduzione degli ingaggi? Alla Juve lo abbiamo fatto, ma il calcio non si salva solo chiedendo ai giocatori di ridursi l'ingaggio".

Umberto Calcagno, presidente dell'associazione calciatori, chiede una riflessione. "I giocatori sono pronti a offrire il loro contributo. Ma da quali fattori è stata determinata la crisi dei club? Solo dal Covid o da una visione parziale degli ultimi dieci anni delle società? Il calcio italiano si è fatto trovare impreparato su stadi, patrimonializzazione, dipendenza dai diritti tv. A livello comunicativo è facile inviare il messaggio che i costi da tagliare sono gli stipendi dei giocatori, ma il 50 per cento dei professionisti guadagna meno di 50 mila euro lordi. È difficile trovare un accordo che vada bene per tutti. Dobbiamo avere aiuti dal Governo".

Gli aiuti sono di là da venire. Nonostante, ricorda Calcio & Finanza, negli ultimi 11 anni la contribuzione del calcio professionistico italiano sia stata di 11,4 miliardi. Nello stesso periodo, i contributi erogati dal Coni alla Figc si sono fermati a 749 milioni: per un euro investito dal Governo nel calcio, lo Stato ha ottenuto un ritorno fiscale e previdenziale pari a 15,2 euro.

Dal Pino ancora ieri ha richiesto all'Esecutivo del premier Conte una mano, finora negata. "Ho scritto al Governo più volte, non ho mai ricevuto risposte. Abbiamo sollecitato come per gli altri settori misure di ristoro. All'estero Boris Johnson è attento alle vicende della Premier League, la Merkel alla Bundesliga".

I club pagano i loro errori e la cattiva fama, ma le difficoltà odierne sono reali. Nella stagione 2018-19, l'ultima senza coronavirus, negli stadi italiani entrarono 9,6 milioni di spettatori, in quella passata 6,8, in questa appena 42 mila e tutti non paganti. I mancati introiti da botteghino saranno a fine stagione di oltre 300 milioni, cui va sommata una riduzione del 40% degli sponsor e un azzeramento pressoché totale del merchandising: con i negozi e gli stadi chiusi vendere magliette e gadget è impossibile.

In più c'è la battaglia con le televisioni, sorgente di vita per il calcio. Incidono sui conti dei club per oltre il 40%. I broadcaster versano circa 1,3 miliardi di euro l'anno, manca però l'ultima rata da 230 milioni della passata stagione. La Lega ha portato in tribunale Sky, Dazn e Igm, ha avuto ragione, deve però ancora vedere i soldi. All'estero non va meglio, in Francia, Ligue 1 è in lite con Mediapro. Il numero uno della Liga, Javier Tebas, ha sottolineato che "il calcio spagnolo avrebbe bisogno di 490 milioni per chiudere la stagione". E secondo l'Eca, i club europei dovranno fronteggiare in due anni mancati introiti per circa 6 miliardi.

La Lega serie A sta tentando di costruirsi un'ancora di salvataggio aprendo ai fondi e creando una media company (MediaCo) per vendere i diritti-tv. Dal Pino ha presentato ai presidenti la proposta di Cvc-Advent-Fsi. Per entrare con la quota del 10% in MediaCo, i fondi hanno alzato l'offerta a 1 miliardo e 650 milioni. Giovedì a Roma si voterà.

red/lde

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MF-DJ NEWS

1709:45 nov 2020

 

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November 17, 2020 03:46 ET (08:46 GMT)

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