Per 43 anni ha lavorato nel cuore della finanza italiana, la
Mediobanca di Enrico Cuccia e Vincenzo Maranghi, di cui è stato
direttore centrale, emerito dell'Area Studi. Oggi Fulvio Coltorti
non ha abbandonato la passione per l'economia, l'analisi di
bilancio e soprattutto per quel quarto capitalismo che costituisce
la spina dorsale del tessuto produttivo italiano. Un capitalismo su
cui si sono affacciati con profitto molti intermediari finanziari
(a partire dalla stessa Mediobanca) ma che, secondo Coltorti, sia
la politica che i regolatori conoscono ancora poco e male. Per
l'economista (che oggi insegna alla Cattolica di Milano) i
pregiudizi sulle pmi italiane sono duri a morire benché i dati
descrivano una realtà diversa. L'avanzo netto commerciale verso
l'estero segnala la competitività delle imprese italiane minori sui
mercati internazionali. Mentre, al contrario, le esportazioni delle
grandi imprese sono bilanciate totalmente dalle loro importazioni.
La sintesi insomma per Coltorti è che «le imprese familiari di
dimensione media e medio-grande sono e saranno dominanti nella
nostra economia ancora a lungo».
Domanda. Professor Coltorti, grazie alla ripresa in atto
l'economia italiana sta gradualmente recuperando il pil perduto
dall'inizio del 2020. Gli effetti della pandemia saranno
cancellati?
Risposta. Non credo. Molte imprese hanno dovuto chiudere i
battenti per le crisi dei mercati. È difficile ora valutare che
cosa abbiamo perduto e che cosa abbiamo salvato. La battaglia
contro il Covid ha stravolto molti luoghi di vita e di lavoro. Ma
la propensione degli italiani a intraprendere non è stata intaccata
e ha fatto sì che il numero complessivo delle imprese sia
addirittura aumentato. Le imprese attive iscritte nei registri
camerali lo scorso settembre avevano raggiunto quota 5.197.000. La
ripresa è tirata dalla manifattura, che è costituita per circa i
due terzi dai sistemi distrettuali e di medie imprese, pertanto
dalla categoria più competitiva. Non si deve credere però che ora
siamo i primi della classe: siamo sempre gli ultimi. In base alle
più recenti previsioni europee, fatto 100 il pil del 2018
(pre-pandemia, ndr), chiuderemo il 2023 a 103,6 contro 105,4 della
Germania, 106 della Francia e 106,6 dell'Eurozona nel suo
insieme.
D. La crisi innescata dal Covid è stata al contempo uno choc di
domanda e uno choc di offerta. Quale dei due è stato più grave per
il tessuto produttivo italiano?
R. Entrambi sono stati molto gravi, ma lo choc di offerta ha
comportato la perdita di imprese e imprenditori con l'interruzione
dei loro molti progetti. Tuttavia l'industria italiana è costituita
in prevalenza, ripeto, da imprese competitive e resilienti, capaci
quindi di "rammendarsi". La domanda si è ridotta, ma essa si sta
ricostituendo con il cambio delle aspettative e con l'effetto
atteso delle azioni mosse dal PNRR.
D. La crisi ha colpito in modo diseguale i settori produttivi e
la ripartenza non è avvenuta alla stessa velocità per tutti. Tutto
questo come ridisegnerà le geografie dell'economia italiana?
R. Credo che sia utile parlare soprattutto di imprese perché la
rivoluzione digitale in corso avrà un'applicazione generale.
Conterà la flessibilità e la creatività degli imprenditori. Ancora
una volta le imprese meno preparate adeguate a questi cambiamenti
sono state finora quelle di grandi dimensioni. Esse hanno colto la
crisi non come un'opportunità di rinnovo e rilancio, ma come
occasione facile per dare forfait e ridurre il personale o
completare la delocalizzazione di fabbriche e di capitali. Le
multinazionali estere (e non solo) considerano l'Italia ormai come
un'area di vendite e di profitti sui quali, grazie alla loro
organizzazione internazionale, evitano le imposte mentre disfano le
catene di fornitura nazionali. In questo ambito, possedere ancora
imprese di dimensione elevata a controllo statale ( Enel, Eni,
Leonardo, St per citare le principali) ci risparmia non pochi
dolori. Dobbiamo tenerle con cura, ma soprattutto dobbiamo evitare
che siano disturbate dalle inframmettenze dei politici che portano
ad amministratori inetti. A me pare che qui occorra una grande
riforma, sia nel pubblico che nel privato. Ad esempio del Codice
delle società quotate che oggi impone la massimizzazione del valore
per gli azionisti e, di riflesso, per i top manager che ne decidono
le azioni. Occorre passare alla massimizzazione del valore per
tutti gli stakeholders e quindi introdurre un concetto di sociale.
Ma non solo di etichetta (ESG); bisogna inserire l'obiettivo del
benessere di tutti, azionisti, lavoratori, fornitori, clienti,
cittadini e società locale in particolare, dato che i territori
sono fondamentali per un equilibrato sviluppo economico. Non sarà
facile, anche perché è stata perduta l'occasione di vincolare gli
aiuti e i soccorsi ex-Covid19 a queste necessarie riforme.
D. Lo choc di offerta sta producendo una fiammata inflattiva
che, dalle materie prime, potrebbe estendersi ad ampi settori
dell'economia. Crede che il fenomeno sarà di breve o di lungo
periodo?
R. La "fiammata" sarà probabilmente di breve periodo e potrà
spegnersi quando l'attività economica tornerà più normale. Ritengo
invece che l'inflazione tornerà a connotare le dinamiche di medio
periodo; vi concorreranno presumibilmente i protezionismi e le
vicende geopolitiche le quali comporteranno una maggiore attenzione
al tipo di beni di cui sarà bene mantenere o riportare la
produzione in casa. L'inflazione più o meno strisciante sarà dovuta
anche ai colli di bottiglia indotti dalla ridefinizione
dell'attività economica verso il digitale. Avrà effetto sui tassi i
quali, a mio parere, saliranno. Anche perché la politica monetaria
dovrà cambiare: non è possibile pensare che questa "pioggia" di
liquidità possa essere la norma, anche se molti vi si sono
adagiati. I mercati torneranno a selezionare i rischi sovrani e noi
saremo lontani ancora per molto tempo dalla tripla A.
D. Bassa crescita e inflazione hanno ricordato a qualcuno gli
Anni Settanta e il fenomeno della stagflazione. Il paragone le
sembra sensato?
R. Penso di no. Negli anni '70 le economie erano molto chiuse,
indebolite e vincolate dalle divisioni internazionali e dalle crisi
energetiche. Oggi la Commissione europea, finalmente, ha imparato
la lezione di Keynes recuperando principi di condivisione dei
rischi. Inoltre il piano di ripresa alimenterà un certo sviluppo
economico. Più che stagflazione vedrei rischi di bolle finanziarie
che temo si formeranno, scoppieranno e faranno danni. Poiché non
abbiamo imparato nulla dalle precedenti crisi, abbiamo molte
questioni fuori controllo, dai derivati alle monete digitali, alle
vere e proprie "bombe" atomiche (così le ha chiamate Timothy
Geithner) costituite dalle grandi banche infarcite di titoli e
crediti illiquidi. Si era detto di snellirle perché sono
necessariamente pesi morti per le finanze pubbliche (too big to
fail) e difficili da gestire (too big to manage). Oggi invece le
autorità spingono per banche sempre più grandi: una linea di
pensiero che è molto difficile da comprendere e che spero porti
presto ad un ravvedimento.
D. La pandemia ha interrotto o fortemente rallentato molte
catene del valore globali. Crede che questa situazione debba
spingere aziende e policy maker a rivedere le strategie di
approvvigionamento, magari con soluzioni di reshoring?
R. Credo proprio di sì, ma bisogna rimboccarsi le maniche. Le
catene del valore permarranno perché sono parte di
un'organizzazione produttiva e commerciale moderna che ha rimediato
alla rigidità delle fabbriche fordiste. Sarà importante preservare
la componente italiana di queste catene e indirizzare i reshoring,
almeno in parte, nel Mezzogiorno. La rivoluzione digitale darà essa
stessa una grande spinta; ridefinendo processi, prodotti e servizi
indurrà un calo di incidenza del costo del lavoro e una maggiore
spinta verso le competenze, il che consiglia molti sforzi per
l'educazione digitale. Per l'Italia queste tendenze potrebbero
essere notevoli, ma dovranno essere accompagnate da politiche
adeguate incentivando chi torna e penalizzando con disincentivi ben
congegnati chi serve il mercato italiano dall'estero.
D. Uno degli effetti più macroscopici della crisi è stato il
balzo nel livello di adozione delle nuove tecnologie che hanno
spinto fenomeni come lo smart working o l'ecommerce. Il cambiamento
avvenuto sarà irreversibile o vede spazio per una convivenza tra
vecchi e nuovi modelli organizzativi?
R. Vi saranno cambiamenti radicali da vedere come sani progressi
organizzativi, inevitabili e benvenuti. Sono già in opera se si
considera che dal 2015 ad oggi il numero delle imprese
manifatturiere è diminuito del 6% mentre il loro fatturato è
aumentato del 13% in presenza di una flessione continua della
dimensione media: la nostra ripresa sta quindi avvenendo con
gestioni efficienti, minori costi e maggiore flessibilità. Lo smart
working consentirà anche l'utilizzo di una maggiore forza lavoro
(oggi inattiva) che potrà presentarsi sul mercato. L'ecommerce è
ormai una realtà molto importante, ma si sta legando sempre più a
presenze oligopolistiche che dovranno essere vigilate e, se nocive,
combattute.
D. L'Italia è un paese di piccole o piccolissime imprese, spesso
a conduzione famigliare. In questo tessuto che effetti ha avuto la
pandemia?
R. Premetto che non condivido affatto il giudizio che si è
incancrenito in alcuni ambienti circa la qualità delle nostre
imprese minori (sommariamente etichettate come PMI). Parlo
specialmente della scuola di pensiero di Bankitalia, ferma ai tempi
di Alfred Chandler Jr. che temeva l'insufficienza del capitale
umano e finanziario. Oggi, specie nel caso delle medie imprese del
quarto capitalismo le gestioni, pur se familiari, sono manageriali
e il capitale non manca. Basti pensare da ultimo alla vera e
propria caccia che si è aperta tra i fondi di private equity nella
speranza di trovare "unicorni" (imprese che si pensa raggiungano
una valutazione di un miliardo di dollari). Grazie agli aiuti e ai
ristori dei vari Governi Conte e Draghi molte piccole e
piccolissime imprese in difficoltà sono riuscite a "passare la
nottata". Molte, come già detto, hanno chiuso, ma la quota
migliore, quella determinante, non solo è sopravvissuta, ma si è
rafforzata reagendo con nuovi prodotti e nuove proposte di servizi,
facilitati dalle nuove tecnologie. Ma mette una certa angoscia
leggere a pag.2 del PNRR che queste imprese siano considerate
"lente nell'adottare nuove tecnologie e a muoversi verso produzioni
a più alto valore aggiunto". Chi ha scritto questa frase ignora la
nostra storia e non ha ancora capito che il nostro enorme problema
non sono le piccole imprese, ma le grandi a controllo privato.
Basta riflettere sull'avanzo netto commerciale verso l'estero che,
da molti anni ormai, segnala la indiscussa competitività delle
nostre imprese minori sui mercati internazionali. Mentre, al
contrario, le esportazioni delle grandi imprese (inferiori anche in
valore assoluto) sono bilanciate totalmente dalle loro
importazioni. Le imprese familiari di dimensione media e
medio-grande sono e saranno dominanti nella nostra economia ancora
a lungo. Ovviamente continueremo ad essere infastiditi
dall'abitudine generale al pianto greco, dalle più alte cariche
istituzionali ai politici meno provveduti, ai banchieri centrali
che continuano a non capire le logiche produttive dei sistemi
integrati. Finiamola di impietosire chiedendo aiuti: siamo un
grande Paese che ha tutto ciò che gli serve per riprendersi il suo
posto. D'altro canto, le nuove tecnologie favoriscono da tempo il
rimpicciolimento delle dimensioni il che agevola anche le tendenze
verso il verde, l'economia circolare e la sostenibilità.
D: Il sistema bancario è stato un attore importante negli ultimi
due anni. Moratorie e schemi di garanzia pubblica hanno sostenuto
il tessuto produttivo durante i lockdown. Ora che effetti si
aspetta? Avremo un nuovo balzo dei crediti deteriorati?
R. Credo proprio di sì. Ma attenzione: i dati Bankitalia
mostrano da tempo che i crediti deteriorati vengono prevalentemente
dalle imprese di grande dimensione che banche incaute sostengono
perché vi lucrano profitti consistenti, pur finendone coinvolte; se
lasciassero fallire un grande cliente finirebbero per fallire loro
stesse. E' una regola antica ben nota agli storici dell'economia.
Piero Sraffa la spiegò lucidamente a Keynes al tempo delle scalate
bancarie degli anni '20 del secolo scorso. Le quali usavano
acquistare azioni proprie (pratica tornata ahimè di moda),
incuranti del conseguente impoverimento patrimoniale,
dell'illiquidità e del rischio di fallimento evitato, infine,
dall'intervento dello Stato.
D. Per la piena ripartenza dell'economia e del paese grandi
aspettative sono riposte nel Pnrr appena varato dal governo Draghi.
Lei condivide quelle aspettative?
R. Difficile dire. Di sicuro questi mezzi finanziari ci saranno
utili sostenendo la nostra economia; ma vedo appetiti più grandi
della voglia di evitare le difficoltà procedurali. Difficile
mettere subito all'opera tutto quanto serve per impiegare questi
fondi. E' anche vero che abbiamo falle storiche sedimentate da anni
di malaffare e cattiva amministrazione. Basti pensare ai luoghi
terremotati, alla mancata cura del territorio, alle pressioni
(purtroppo ascoltate) degli evasori fiscali e di chi ha costruito
contra-lege in luoghi inadatti e vietati. Occorrerebbe un
cambiamento epocale della politica nazionale e locale. Servirebbe
anche un cambiamento radicale della testa dei cittadini perché la
cattiva amministrazione è un portato di chi è abituato a spuntare
favori personali. Senza dimenticare i conflitti d'interesse che
sono il vero cancro della nostra vita economica. Ma qui il discorso
sfugge troppo lontano.
red
MF-DJ NEWS
0608:54 dic 2021
(END) Dow Jones Newswires
December 06, 2021 02:54 ET (07:54 GMT)
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