(Da Milano Finanza)
Cercasi Arnault italiano, anche molto più piccolo. Tutte le
aziende italiane della moda e del lusso quotate in borsa, anche a
Hong Kong come Prada, e se si esclude Essilor-Luxottica (Essilux),
ormai di nazionalità francese, non valgono sul listino più del 5%
della capitalizzazione di Lvmh, il gigante del lusso in senso lato,
che ha fatto diventare l'ex-costruttore edile francese Bernard
Arnault l'uomo più ricco del mondo.
E pensare che l'Italia è la vera patria del fashion, anche nel
senso che comunque la produzione dei componenti, con tutta la
filiera del settore, è italiana. Cioè sono gli artigiani e le
industrie italiane che contano a permettere a Lvmh e agli altri
grandi gruppi internazionali di avere la qualità che hanno.
Sono da una parte la positiva quotazione a NY del gruppo Zegna e
dall'altro l'ennesimo acquisto, quello del 60% di Etro per 500
milioni da parte di Arnault, a riportare prepotentemente davanti
agli occhi di tutti gli italiani, ma soprattutto del governo
Draghi, la progressiva de-italianizzazione di un settore che
sintetizza il meglio dell'Italia in termini di creatività, stile,
eleganza, qualità nello spirito dei più grandi artisti del
paese.
È un problema che il governo deve affrontare, pur nella libera
dinamica del mercato, perché anche la vendita del 60% di Etro, pur
essendo un'azienda non di significative dimensioni, impoverisce il
paese. Qualcuno potrebbe dire che comunque, all'Italia rimane la
filiera, anche se a sua volta ampiamente controllata dai gruppi
esteri. Vero, ma questo è proprio il segno che da Arnault agli
altri gruppi internazionali del lusso vengono a produrre in Italia
e poi realizzano i loro enormi profitti fuori dall'Italia. Non è
questo un discorso da Salvini. È una realtà di fronte alla quale si
può anche rimanere impassibili, ma se solo i profitti di Lvmh
fossero fatti in Italia, il paese avrebbe maggiori risorse non solo
per sviluppare il settore, ma anche per la creazione di posti di
lavoro e per entrate fiscali dello Stato.
Vale quindi tentare di capire come sia nato in Francia e non in
Italia un gruppo che vale da solo quasi la metà della
capitalizzazione di tutti i titoli di piazza Affari. È interessante
capirlo anche perché quello straordinario fenomeno che è il più
grande gruppo del fashion e del lusso di tutto il mondo è nato da
un salvataggio fatto dallo stato francese di un'azienda tessile, il
gruppo Boussac, che era sulla soglia di un fallimento pesantissimo.
Marcel Boussac era stato per molti anni erede dell'omonima azienda
tessile di famiglia. Uomo brillante, impiegò molte delle sue
ricchezze nei cavalli da corsa, vincendo anche l'Arc de Triomphe.
Il gruppo, già traballante, passò sotto la proprietà del gruppo
Agashe-Willow per 700 milioni di franchi francesi. Ma anche il
nuovo gruppo Boussac-Sant-Frères continuò a perdere (100 milioni di
franchi all'anno) e la proprietà fu costretta portare i libri in
tribunale nel giugno del 1981. Dopo tre anni, nel 1984, Bernard
Arnault, immobiliarista di ritorno dagli Stati Uniti dove gestiva
Ferinel, l'azienda di famiglia trasformata in una società
specializzata in appartamenti al mare, decise di acquistare la
holding per la seconda volta nelle mani del tribunale, con tutte le
sue partecipazioni. Sono in lizza anche altri, fra cui Tapie,
Biderma, Prouvost e Alain Chevalier, proprietario di Moet Hennessy
(champagne e cognac) che aveva nel portafoglio i profumi Christian
Dior.
Primo ministro allora era Alain Fabius che, pur di salvare posti
di lavoro, fece avere alla società due volte fallita ben 750
milioni di franchi. Arnault aveva un patrimonio di famiglia di
circa 90 milioni di franchi, ma non intendeva affatto metterlo in
gioco. In più doveva mettere nell'operazione almeno 400 milioni di
franchi, che comunque non aveva. Ma Arnault aveva la simpatia di
Antoine Bernheim della Banque Lazard. Bernheim coinvolse la Banque
Worms, la Total ed Elf Aquitaine, che ci misero più di 3/4 dei
fondi necessari.
Tutti questi finanziamenti, a cominciare da quelli dello stato,
furono concessi per l'impegno a mantenere tutte le attività e tutti
i dipendenti. Ma Arnault riuscì di fatto a vendere tutto, con
l'eccezione di Christian Dior Couture, che era nel portafoglio di
Boussac. Ottenendo anche un finanziamento di 400 milioni dalla
banca pubblica Credit Lyonnais, che gli consentì acquisire in
segreto il controllo del gruppo.
Chi ha avviato un tentativo di aggregazione di piccole e medie
aziende è stato Maurizio Tamagnini, che con il fondo Fsi ha
rilevato una quota del 40% di Missoni. Prima aveva nel mirino
Versace, uno dei quattro maggiori marchi italiani. Ma l'offerta
della holding americana Capri è stata inarrivabile.
Tamagnini è stato a capo del Fondo strategico italiano, che era
posseduto in maggioranza da Cdp, ma poi è cambiata la strategia e
insieme ad alcuni colleghi ha rilevato la Sgr del Fondo strategico,
mettendo in ditta la sigla Fsi. È probabile che Fsi possa
intervenire anche in altre aziende ancora familiari, ma è un
ripensamento che dovrebbe avvenire a livello di Cdp, dove oggi è
arrivato come amministratore delegato un uomo di grande esperienza
e capacità nello sviluppo come Dario Scannapieco, per anni
vicepresidente esecutivo della Banca europea degli
investimenti.
Cdp si è finora dedicata soprattutto a investimenti nelle grandi
aziende del paese, con l'intervento recente per il riacquisto della
società Autostrade per l'Italia. Sarebbe bene che lo sguardo si
allargasse anche a un settore come la moda e il lusso, ovviamente
con l'obbiettivo di fare da aggregatore per poi ricollocare in
borsa uno o due gruppi capaci di garantire all'Italia di recuperare
nel settore dove è più votata.
L'elenco delle vendite importanti di aziende italiane a capitale
francese e internazionali è lunghissimo nella moda e nel lusso. Le
più significative riguardano Gucci, Loro Piana (il capo
dell'azienda, Sergio Loro Piana, prima di morire decise con il
fratello di vendere proprio ad Arnault perché, come mi spiegò, era
arrivato a un fatturato di 800 milioni ma il suo concorrente, nel
lusso raffinato, era Hermès, che fatturava già tre volte tanto e
che ora è arrivato a 7 miliardi, con una capitalizzazione di ben
156 miliardi); e poi Versace, Bulgari, Fendi, Valentino.
Il presidente della Camera nazionale della moda, Carlo Capasa,
non ha esitato, in pieno Covid, a chiedere espressamente al governo
di intervenire con sostegni, soprattutto per le numerose piccole e
medie aziende, che sono la ricchezza del paese per creatività e
qualità dei prodotti realizzati, e in mano essenzialmente alle
famiglie.
Class Editori, che con MF Fashion edita l'unico quotidiano
europeo della moda e del lusso, non esita a ripetere che pur avendo
il governo numerose urgenze, riforme da attuare, aziende grandi e
piccole in zona fallimento, tralasciando i problemi politici che
ogni giorno vengono creati al presidente Mario Draghi, è non solo
opportuno ma necessario e strategico che attraverso Cdp analizzi
come rafforzare il settore. La concorrenza di giganti come Arnault,
Hermès ecc., non è imbattibile. La creatività del settore italiano
è imbattibile; il saper fare prodotti di altissima qualità, idem.
Solo il governo con Cdp può mettere a punto una strategia
alternativa alla già presente egemonia francese. Deve farlo perché
ci sono aziende familiari (come Ferragamo), o personali (come
Armani), o gruppi già attivi nell'aggregazione come il Only the
brave (Otb) di Renzo Rosso, o ancora come Tod's che possono dar
luogo a gruppi importanti per un presidio dei mercati mondiali.
Si parla molto di un tentativo di un dialogo in atto fra Giorgio
Armani, che una quindicina di anni fa rifiutò la corte di Arnault
venuto a vedere la sfilata nella sede di via Borgonuovo, e John
Elkann, che ha già impegnato un po' di capitale di Exor nel settore
della moda e in particolare in Cina e in una quota di minoranza di
Loboutin. Nessuno può proibire che la holding delle automobili,
oltre che nell'editoria importante come Gedi, entri
significativamente nella moda. Ma certo gli investimenti da fare
nel settore automobilistico per garantire la salvaguardia dei posti
di lavoro in Italia sono tanti. Basterà essere secondo socio di
Stellantis per garantirli? Al nipote di Agnelli il lusso piace, più
che legittimamente con la Ferrari, di cui ha il pieno controllo. Si
comprende che Exor sia vissuta come la cassaforte per garantire
utili alla numerosissima famiglia. Il mondo della moda ha dubbi che
possa essere il miglior partner di Armani. Armani può essere,
proprio per la posizione del fondatore, un pilastro di un grande
gruppo italiano, aggregando altre aziende. Armani, infatti, è
presente direttamente non solo nella moda, nella casa, ma anche
negli alberghi e nei ristoranti. Uno schema tipico di Arnault.
Manca solo il settore vini, che è all'origine della fortuna del
gruppo francese.
Meglio moda e lusso con le automobili o con un'altra espressione
del savoir faire e il lusso italiano come i vini e anche distillati
e liquori? Meglio Campari, come parte rilevante di un'aggregazione
di moda ? O meglio, come pure qualcuno sostiene, limitarsi a che
l'Italia sia la fonte creativa e produttiva della moda? L'opinione
di questo giornale è che le aggregazioni sono inevitabili, anche
per garantire lo sviluppo della straordinaria filiera
produttiva.
P.S. Il passo intermedio, almeno per le numerose aziende
familiari, è quello che ha mostrato la saggezza e la determinazione
di Gildo Zegna e il consenso di suo cugino Paolo. Zegna è una
grande azienda familiare arrivata alla quarta generazione e il suo
incontro con Andrea Bonomi, leader del private equity, ha prodotto
un risultato brillante. I Ferragamo andranno sulla stessa strada?
C'è poi l'Aim, dove con una incentivazione specifica potrebbero
quotarsi aziende pmi familiari. Con la possibilità poi di
aggregarsi. Perché la Cdp non crea un fondo per tutto il settore?
(riproduzione riservata)
Paolo Panerai
red
MF-DJ NEWS
2608:07 lug 2021
(END) Dow Jones Newswires
July 26, 2021 02:09 ET (06:09 GMT)
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