Si assottiglia il numero dei big della manifattura italiana, con i campioni nazionali che perdono terreno rispetto ai competitor europei in termini di dimensioni di mercato, capacità di aggredire le piazze internazionali, sostenere investimenti, produrre utili e mantenere margini industriali soddisfacenti. Una situazione che si riflette inesorabilmente anche in Borsa.

La fotografia impietosa emerge dall'Annuario di Mediobanca R&S che raccoglie i profili dei principali gruppi italiani quotati nel periodo 2012-2016, confrontandoli con quelli dei peer europei.

Tra i punti di forza, spiegano gli esperti di Piazzetta Cuccia, spicca la capacità di creare occupazione. In termini di crescita degli organici, il progresso per le aziende italiane è stato del 7,2% a partire dal 2012, ben oltre il Regno Unito (+5,8%), Germania (+5%) e Francia (+1%). Inoltre, i gruppi italiani sono anche i più liquidi, con un'incidenza sul debito pari al 41,7% contro il 36% dei francesi, il 23,6% dei britannici e il 13,4% dei tedeschi.

Le note liete, tuttavia, finiscono qui. In termini numerici, osserva lo studio, la pattuglia dei big della manifattura italiana si è fortemente ridimensionata negli ultimi anni, complice la scelta di Exor di trasferire in Olanda la propria sede, il merger tra Essilor e Luxottica che renderà francese il gruppo post fusione e il delisting con successivo takeover straniero osservato per Pirelli (finita sotto il controllo di ChemChina) e Italcementi (assorbita dai tedeschi di Heidelberg). Analoga sorte toccherà anche a Parmalat, finita alla Lactalis della famiglia Besnier che per ben due volte ha cercato di arrivare all'Opa residuale per delistarla, pur senza riuscirci per l'opposizione del fondo Amber.

Si conferma, poi, una delle caratteristiche ormai croniche della nostra manifattura, vale a dire le dimensioni che rimangono molto al di sotto rispetto a quelle dei grandi campioni europei. A livello consolidato per Paese, Mediobanca osserva che nel 2016 i dieci principali player italiani hanno fatturato 84 miliardi di euro, vale a dire meno di un decimo dei loro peer tedeschi (767 mld), un quarto di quelli transalpini (327 mld) e metà di quelli britannici (180 mld).

Dimensioni più piccole in patria rendono gioco forza complicato competere oltre confine, dove infatti - in percentuale sul giro d'affari complessivo - per le top ten italiane il fatturato prodotto all'estero è inferiore: 76,8% control l'85,8% francese e l'83,2% tedesco.

A livello industriale, comunque, anche per l'Italia l'arco temporale 2012-2016 ha portato a una crescita dei fatturati, che tuttavia è stata 'single digit' grazie a un progresso del 5,1%. Poca cosa se rapportato all'11,9% messo a segno dalle aziende manifatturiere tedesche e comunque al di sotto rispetto al miglioramento riscontrato in Francia (+6,6%) e Gran Bretagna (+5,7%). Peggio ancora è andata sul piano dei margini industriali, dove il passo del gambero (-30,5%) stride con la crescita registrata dai competitor francesci (+35,7%) e tedeschi (+21,9%), mentre le aziende britanniche hanno contenuto il calo al 5,8%.

Nel solo 2016, dove comunque la ripresa è evidente, il margine Ebit per le top 10 italiane è migliorato a livello tendenziale del 3,2%, preceduto tuttavia da Gran Bretagna (+18,4%), Francia (+12,4%) e Germania (+8,8%). In termini di Roe, spiegano ancora gli esperti di Piazzetta Cuccia, l'Italia è l'unica a finire in rosso (-3%), mentre le imprese britanniche (23,8%) precedeono quelle tedesche (13,7%) e francesi (12%).

Una situazione che inevitabilmente si traduce con minori utili: le 40 big di ognuno dei 40 Paesi hanno distribuito ai propri azionisti cedole cumulate di 200 miliardi (Germania), 103 mld (Gran Bretagna), 96 mld (Francia) e solo 4 miliardi per le italiane. Poche soddisfazioni arrivano infine dalla Borsa: i primi dieci gruppi italiani registrano nei cinque anni un progresso del 13,6%, contro il 39,9% dei tedeschi, il 34% dei francesi e il 29,8% dei britannici.

ofb

 

(END) Dow Jones Newswires

July 26, 2017 11:35 ET (15:35 GMT)

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