Un settore bancario tornato nelle grazie dei gestori internazionali: è la istantanea scattata alla fine delle assemblee bancarie fin qui svoltesi, in cui ai primi posti dei libri soci figurano medi e grandi fondi internazionali. Tutto bene dunque? Il nuovo sistema di public company anglosassone sta soppiantando quello dei noccioli duri basati sulle fondazioni? Non è tutto oro quello che luccica. Lo sostiene in questa intervista a MF-Milano Finanza Lando Maria Sileoni, fresco di conferma come segretario generale della Fabi, il più potente sindacato dei bancari italiani. E fa una proposta concreta.

Domanda. L'esito delle ultime tornate assembleari delle banche ha confermato un fenomeno fin qui tipico delle grandi banche internazionali, ovvero la presenza attiva di fondi esteri.

Risposta. È proprio così. Dopo la lunga crisi gli assetti societari sono cambiati e molte delle nostre banche sono in mano a fondi esteri. Basti pensare a Unicredit : i primi due soci di peso sono esteri. Ci sono il fondo Aabar di Abu Dhabi, stabilmente al 5% del capitale, e il grande fondo californiano Capital Research col 5,1%. Unicredit è una sorta di public company coi fondi oltre il 70% del capitale e le vecchie fondazioni ormai residuali a meno del 6%.

D. Anche Intesa è a trazione straniera.

R. Sì, ma per la prima banca italiana le fondazioni continuano ad avere un ruolo centrale, con la Compagnia di San Paolo al 7,6% e Cariplo al 4,7%. Uno zoccolo duro tricolore che per fortuna tiene e dà stabilità. Ma subito dietro c'è la fila di stranieri: da BlackRock (5%) a Capital Research, che è pure il primo socio di Unicredit .

D. E anche negli altri due gruppi.

R. In Ubi le due fondazioni, Cuneo e Banca del Monte, rispettivamente col 5,9 e 4,9%, sono tuttora i primi due soci italiani, ma anche la presenza degli stranieri è massiccia: a partire dal fondo Silchester oltre il 5% e Hsbc col 4,7%.

D. Nelle ex popolari che cosa è successo dopo la riforma?

R. L'azionariato ora è aperto. L'abolizione del voto capitario ha permesso la contendibilità e ha acceso l'interesse degli stranieri. In Banco Bpm si parla inglese: su tutti ci sono gli americani di Capital Research, che hanno rastrellato il 5% del capitale. E nel Creval dopo l'aumento di capitale il primo socio è Steadfast Capital con il 8,5%.

D. Insomma nelle assemblee si parlerà sempre meno italiano.

R. Sì, ma per un certo aspetto è un fatto positivo. Se i grandi fondi d'investimento del risparmio a livello globale tornano a investire sulle banche, vuol dire che sono ritornate attraenti e a fare utili. Ma i fondi fanno il loro mestiere: guardano ai rendimenti, non sempre alla gestione.

D. In che senso?

R. Spesso i fondi investono solo in cerca di ritorni, comprano quote piccole e poi escono quando hanno avuto un rendimento accettabile. Il problema può sorgere se quelle quote diventano investimenti stabili. I fondi in questo caso possono chiedere di avere voce in capitolo sulla gestione, imponendo scelte strategiche. Guardate che cosa sta facendo Elliott con Telecom Italia . È il modello della public company anglosassone. Ma possono sorgere problemi. I fondi cercano redditività a ogni costo, trimestre su trimestre. Pochi lavorano in un'ottica di lungo periodo, attenti anche agli aspetti di equilibrio sul piano sociale dell'impresa-banca. Se la redditività rallenta, chiedono subito tagli. La loro ossessione è efficienza e costi minimi. Perciò, se non sono bilanciati da investitori di lungo termine come una volta erano le fondazioni, i fondi finiscono per spadroneggiare e limitare l'autonomia gestionale. È un pericolo per la banca, un rischio per i lavoratori bancari. Conosciamo la ricetta per fare più profitti: si fanno esuberi, si tagliano sportelli e posti di lavoro. Una governance che non ci piace affatto.

D. O la public company coi suoi rischi o il modello stabile delle fondazioni, che però non è esente da pecche...

R. Le fondazioni talvolta non hanno dato buona prova di sé. A Siena e a Genova, dove governavano con oltre il 50%, sappiamo tutti come è andata a finire. Le fondazioni erano e sono il governo della politica sulle banche. Giusto che abbiano un ruolo molto più delimitato, che serva a garantire stabilità e una autonomia decisionale vera al management. Il modello è quello di Intesa , dove le due fondazioni, con meno del 15% del capitale, sono lo zoccolo duro della stabilità a lungo termine.

D. E la terza strada?

R. Il sistema bancario merita più attenzione da parte della comunità economico-finanziaria interna. L'Italia è un Paese ad alto tasso di risparmio e le banche sono il fulcro di questa ricchezza, che si può e si deve trasmettere come investimento all'economia reale. Ma sono più attenti gli stranieri rispetto al sistema Paese. È un'occasione persa. Le banche stanno uscendo dalla più grave crisi del Dopoguerra. I protagonisti della finanza italiana investano sui nostri istituti. Penso a nuclei piccoli, ma coesi di investitori italiani: possono sostituire il ruolo perso dalle fondazioni e bilanciare l'avanzata dei fondi di stampo anglosassone, troppo propensi a volere la redditività a breve, costi quel che costi.

D. In uno scenario del genere il sindacato che proposte ha?

R. Sarebbe politicamente cruciale creare una commissione che analizzasse e programmasse il futuro del settore, magari su iniziativa dell'Abi. Una commissione vera, composta da economisti, analisti, storici, politici, imprenditori, dirigenti pubblici, giornalisti, scrittori e rappresentanti dei sindacati. Ci sono illustri precedenti, come quando l'economista Jacques Attali in Francia creò un gruppo di lavoro per rilanciare l'economia francese. Considerando che nel 2019 Draghi lascerà la presidenza della Bce e considerando il pressing esasperato e integralista della commissione di vigilanza della stessa Bce, che poco rispetto ha per il settore bancario italiano, sarebbe importante che ogni componente di questa commissione discutesse una riforma strutturale del settore. Un progetto per rilanciare l'industria bancaria italiana garantendo stabilità. Il movimento sindacale non vuole trattare con le banche sotto la scure e i diktat dell'autorità di vigilanza europea.

red/fch

 

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April 26, 2018 03:28 ET (07:28 GMT)

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