Eni, Enel , Leonardo , Poste Italiane ,Terna , Enav , Banco Bpm , Mediobanca . Sono alcune delle quotate a Piazza Affari che dovranno rinnovare il consiglio di amministrazione l'anno prossimo. Vuoi per i movimenti nella compagine azionaria, vuoi per il cambiamento della maggioranza politica, nessuno degli attuali amministratori delegati di queste società può dirsi sicuro della conferma. Ciononostante, né i board né i grandi soci sembrano essersi preoccupati di pianificare un'eventuale successione. Un problema non da poco. Uno studio di Pwc sulle prime 2.500 quotate al mondo ha calcolato che un avvicendamento disordinato al vertice costa in media 1,8 miliardi di capitalizzazione.

Molte società, scrive Milano Finanza, hanno colto l'importanza di avere un piano B, specialmente in quest'epoca di rivoluzione digitale che rischia di travolgere non solo i modelli di business tradizionali ma anche assetti di governance consolidati. Nel 2018 il tasso di turnover dei ceo nel campione di quotate analizzato da Pwc è stato del 17,5%, il massimo storico. In altri termini, quasi un chief executive officer su cinque è stato sostituito. Nel 70% dei casi, però, il cambio al vertice era stato organizzato in anticipo. Lo stesso non si può dire per Piazza Affari. La relazione 2018 del Comitato Italiano per la Corporate Governance ha evidenziato che solo 43 società hanno adottato un piano per la successione dei rispettivi amministratori esecutivi

Da che cosa dipende questa ritrosia? Secondo Enzo De Angelis, vicepresidente di Mercer, sono soprattutto due i fattori spiegano questa carenza: la struttura azionaria prevalente delle società quotate a Piazza Affari e la tendenza degli amministratori delegati italiani a considerare il loro mandato eterno. «Nelle public company tipiche del mercato anglosassone quando il ceo non viene più ritenuto adeguato gli azionisti e i comitati nomine dei consiglio di amministrazione procedono al cambiamento e lo pianificano con processi di successione organizzati», nota De Angelis. «Viceversa, nelle grandi aziende controllate dallo Stato o dalle grandi famiglie si seguono logiche diverse e in certo modo meno strutturate».

In particolare, prosegue, «per quanto riguarda le partecipate il mutevole colore politico delle maggioranze di governo talvolta influenza le scelte dei vertici societari: all'instabilità dei governi può corrispondere così spesso l'instabilità della governance». Non è forse un caso allora che il picco di turnover fra i ceo delle quotate al Ftse Mib sia stato toccato nel 2014 durante il governo Renzi, che cambiò i numeri uno di Enel , Eni , Poste e Finmeccanica. Alla fine di quell'anno una società su quattro tra quelle presenti nel listino principale di Piazza Affari si trovò con un nuovo amministratore delegato. Secondo indiscrezioni, nel nuovo governo Movimento 5 Stelle-Partito Democratico è forte la tentazione di sparigliare i vertici delle partecipatepubbliche in scadenza nel 2020. Una scelta legittima, ma che richiede cautela. Anzitutto, la successione va preparata per tempo e con trasparenza, possibilmente senza ricorrere a manovre dietro le quinte o a indiscrezioni filtrate ad arte. Il mercato non ama infatti il malcostume italiano del 'non detto'. «Cambi inattesi al vertice comportano spesso perdite significative per gli azionisti», sottolinea De Angelis. «Gli investitori non amano l'incertezza causata dalla mancanza di una guida e quindi vendono». In secondo luogo, troppa discontinuità al vertice può nuocere alla società. Secondo il ceo success study 2018 di Pwc, a livello globale i ceo più longevi hanno di norma più successo di quelli di nomina recente. Nel periodo 2004-2018 i primi hanno superato del 3,3% i secondi quanto ad aumento annuale dei ritorni complessivi per gli azionisti (Tsr) -5,7% a 2,4%. Raramente, poi, chi prende il posto di un ceo molto longevo riesce a ripetere il successo del predecessore: in media il Tsr scende del 4% con il nuovo amministratore delegato, per cui aumenta del 16% il rischio di licenziamento.

Più che l'inadeguatezza del subentrante, tuttavia, questo dato dimostra l'incapacità dei precedenti vertici di preparare una successione ordinata e tempestiva. Un difetto che accomuna molti amministratori delegati italiani, il cui credo sembra essere 'non avrai altro ceo all'infuori di me'. «In Italia c'è una questione culturale: i consigli di amministrazione non pianificano la successione», osserva De Angelis. «Nei Paesi anglosassoni, invece, una delle principali responsabilità dei cda e dell'amministratore delegato è adottare processi strutturati per far crescere all'interno della società i leader del futuro; pianificare la successione è una questione di risk management perché è indispensabile per assicurare la continuità aziendale».

red/fch

 

(END) Dow Jones Newswires

October 14, 2019 02:44 ET (06:44 GMT)

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