Governance: in Italia il Ceo è per sempre (Mi.Fi.)
14 Ottobre 2019 - 08:59AM
MF Dow Jones (Italiano)
Eni, Enel , Leonardo , Poste Italiane ,Terna , Enav , Banco Bpm
, Mediobanca . Sono alcune delle quotate a Piazza Affari che
dovranno rinnovare il consiglio di amministrazione l'anno prossimo.
Vuoi per i movimenti nella compagine azionaria, vuoi per il
cambiamento della maggioranza politica, nessuno degli attuali
amministratori delegati di queste società può dirsi sicuro della
conferma. Ciononostante, né i board né i grandi soci sembrano
essersi preoccupati di pianificare un'eventuale successione. Un
problema non da poco. Uno studio di Pwc sulle prime 2.500 quotate
al mondo ha calcolato che un avvicendamento disordinato al vertice
costa in media 1,8 miliardi di capitalizzazione.
Molte società, scrive Milano Finanza, hanno colto l'importanza
di avere un piano B, specialmente in quest'epoca di rivoluzione
digitale che rischia di travolgere non solo i modelli di business
tradizionali ma anche assetti di governance consolidati. Nel 2018
il tasso di turnover dei ceo nel campione di quotate analizzato da
Pwc è stato del 17,5%, il massimo storico. In altri termini, quasi
un chief executive officer su cinque è stato sostituito. Nel 70%
dei casi, però, il cambio al vertice era stato organizzato in
anticipo. Lo stesso non si può dire per Piazza Affari. La relazione
2018 del Comitato Italiano per la Corporate Governance ha
evidenziato che solo 43 società hanno adottato un piano per la
successione dei rispettivi amministratori esecutivi
Da che cosa dipende questa ritrosia? Secondo Enzo De Angelis,
vicepresidente di Mercer, sono soprattutto due i fattori spiegano
questa carenza: la struttura azionaria prevalente delle società
quotate a Piazza Affari e la tendenza degli amministratori delegati
italiani a considerare il loro mandato eterno. «Nelle public
company tipiche del mercato anglosassone quando il ceo non viene
più ritenuto adeguato gli azionisti e i comitati nomine dei
consiglio di amministrazione procedono al cambiamento e lo
pianificano con processi di successione organizzati», nota De
Angelis. «Viceversa, nelle grandi aziende controllate dallo Stato o
dalle grandi famiglie si seguono logiche diverse e in certo modo
meno strutturate».
In particolare, prosegue, «per quanto riguarda le partecipate il
mutevole colore politico delle maggioranze di governo talvolta
influenza le scelte dei vertici societari: all'instabilità dei
governi può corrispondere così spesso l'instabilità della
governance». Non è forse un caso allora che il picco di turnover
fra i ceo delle quotate al Ftse Mib sia stato toccato nel 2014
durante il governo Renzi, che cambiò i numeri uno di Enel , Eni ,
Poste e Finmeccanica. Alla fine di quell'anno una società su
quattro tra quelle presenti nel listino principale di Piazza Affari
si trovò con un nuovo amministratore delegato. Secondo
indiscrezioni, nel nuovo governo Movimento 5 Stelle-Partito
Democratico è forte la tentazione di sparigliare i vertici delle
partecipatepubbliche in scadenza nel 2020. Una scelta legittima, ma
che richiede cautela. Anzitutto, la successione va preparata per
tempo e con trasparenza, possibilmente senza ricorrere a manovre
dietro le quinte o a indiscrezioni filtrate ad arte. Il mercato non
ama infatti il malcostume italiano del 'non detto'. «Cambi inattesi
al vertice comportano spesso perdite significative per gli
azionisti», sottolinea De Angelis. «Gli investitori non amano
l'incertezza causata dalla mancanza di una guida e quindi vendono».
In secondo luogo, troppa discontinuità al vertice può nuocere alla
società. Secondo il ceo success study 2018 di Pwc, a livello
globale i ceo più longevi hanno di norma più successo di quelli di
nomina recente. Nel periodo 2004-2018 i primi hanno superato del
3,3% i secondi quanto ad aumento annuale dei ritorni complessivi
per gli azionisti (Tsr) -5,7% a 2,4%. Raramente, poi, chi prende il
posto di un ceo molto longevo riesce a ripetere il successo del
predecessore: in media il Tsr scende del 4% con il nuovo
amministratore delegato, per cui aumenta del 16% il rischio di
licenziamento.
Più che l'inadeguatezza del subentrante, tuttavia, questo dato
dimostra l'incapacità dei precedenti vertici di preparare una
successione ordinata e tempestiva. Un difetto che accomuna molti
amministratori delegati italiani, il cui credo sembra essere 'non
avrai altro ceo all'infuori di me'. «In Italia c'è una questione
culturale: i consigli di amministrazione non pianificano la
successione», osserva De Angelis. «Nei Paesi anglosassoni, invece,
una delle principali responsabilità dei cda e dell'amministratore
delegato è adottare processi strutturati per far crescere
all'interno della società i leader del futuro; pianificare la
successione è una questione di risk management perché è
indispensabile per assicurare la continuità aziendale».
red/fch
(END) Dow Jones Newswires
October 14, 2019 02:44 ET (06:44 GMT)
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