Spigolature

- Modificato il 01/12/2017 10:47
lella6 N° messaggi: 1519 - Iscritto da: 01/2/2010

e di tutto un po'.

gocce di saggezza, briciole di buone letture,

poesia e musica indimenticabile e chi più ne ha più ne metta.

Buona giornata!





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MODERATO kunab ku 21 (Utente disabilitato) N° messaggi: 245 - Iscritto da: 10/3/2014
MODERATO kunab ku 21 (Utente disabilitato) N° messaggi: 245 - Iscritto da: 10/3/2014
203 di 997 - 27/3/2014 01:59
lella6 N° messaggi: 1519 - Iscritto da: 01/2/2010
Esiste la schiavitù ancora oggi?



Anche se ufficialmente la schiavitù è condannata da tutti gli Stati, oggi milioni di persone vivono questa condizione

Schiavitù per debiti
Nel subcontinente indiano e zone confinanti esiste ancora la possibilità di nascere schiavi in virtù dei debiti non estinti da parte dei genitori. In Afghanistan le bambine vengono vendute quali nesso di pagamento di un debito

Oggi sono 20 milioni in tutto il mondo le persone schiave per debiti
Ogni anno, secondo una stima delle Nazioni Unite, circa 4 milioni di individui vengono trasportati e venduti, con la forza o con l’inganno, per essere impiegati come schiavi in diverse forme di lavoro forzato (accattonaggio, lavoro domestico, prostituzione)

Ogni anno nel mondo 1.390.000 persone sono ridotte allo stato di schiave sessuali (lo scrive la giornalista messicana Lydia Cacho nell’introduzione del suo libro “Schiave del potere-una mappa della tratta delle donne e delle bambine nel mondo
204 di 997 - 27/3/2014 02:08
lella6 N° messaggi: 1519 - Iscritto da: 01/2/2010
Un sorriso non lo si nega a nessuno.....

REGALAMI UN SORRISO

Regalami un sorriso
il più bello, il più vero
quando gli occhi brillano
e le pagliuzze dorate sono pioggia di stelle.
Regalami un sorriso
che sgorghi direttamente dal cuore
una cascata che ti abbraccia e penetra nelle ossa.
Regalami un sorriso
che sia un battito di mani festanti
un rompere gli schemi,
la naturalezza che danza.
Regalami un sorriso
che mostri i denti,
tasti di un pianoforte
che suona la gioia del momento.
Regalami un sorriso
lo metterò in cornice...
Mi basterà guardarlo e sarà colore, calore.
In un istante
sarà estate in pieno inverno.

Mary Florio



https://www.youtube.com/watch?v=gAQRw27bHzs
MODERATO kunab ku 21 (Utente disabilitato) N° messaggi: 245 - Iscritto da: 10/3/2014
MODERATO manuele_1 (Utente disabilitato) N° messaggi: 12919 - Iscritto da: 13/7/2009
207 di 997 - 27/3/2014 10:49
lella6 N° messaggi: 1519 - Iscritto da: 01/2/2010
Storia breve di un paio di scarpe


Il viaggio era cominciato dalle parti della piccola città, sul fiume. Sapevamo che sarebbe stato difficile, ma nessuno pensava che così pochi di noi ce l’avrebbero fatta. I primi a lasciare la compagnia furono i tacchi. Arrivati al primo avamposto, senza dire né a né ba, s’alzarono l’un l’altro (vale a dire alzarono i tacchi) e chi li vide più. Di certo se se ne andarono, significa che si portavano dentro un grosso peso. Fu in ogni caso un peccato perderli così: erano pur sempre persone di un certo spessore.
A seguire il loro esempio, dopo molti chilometri, furono le suole. Tuttavia la loro dipartita fu salutata da molti con un certo sollievo. Infatti, manifestavano (e devo dire, con insolita costanza, per delle personalità così piatte) una forte tendenza a calpestare l’altrui parere o volontà. Ad ogni modo al loro allontanarsi, l’atmosfera tra i membri di quest’inedita spedizione, sembrò farsi molto più distesa.
Dico sembrò, perché purtroppo gli eventi dovevano volgere al peggio nel giro di qualche ora. Il repentino abbandono delle suole permise ad altri di mettersi in mostra, anche se sotto una cattiva luce. Le suolette (questa la loro identità), della cui presenza quasi nessuno si era accorto, cominciarono in breve ad ottenere l’attenzione generale. Ma questo solo a cagione delle querule lamentele che a ritmo incessante essi volgevano ora ad uno, ora ad un altro, tutte di questo tipo:
“Rallentiamo, il terreno è troppo accidentato, usciranno delle vesciche” oppure:
“C’è troppo umidità, poco poco stasera ci avremo di quei reumatismi…” e così via.
Poi quando ti offri di aiutarli, ti guardano con aria schifata e ti rispondono:
“Allontani quelle manacce sozze! Ce la caviamo benissimo da suole.”
C’è poco da meravigliarsi, questi tipi dell’interno, leccapiedi patentati, vivono con la puzza sotto al naso. Ma, com’era prevedibile, non resistettero che poco, pochissimo tempo in quella situazione avversa. Logorate dalla fatica e dallo stress psicologico, un bel giorno, uscite dal gruppo e sedutesi su un verde prato, dissero:
“Solo per cinque minuti, poi vi raggiungiamo”.
Furono le ultime parole che udimmo da loro.
La strampalata comitiva aveva già perduto diversi suoi elementi. Cominciò allora a serpeggiare tra noi un sentimento nuovo. Dapprima subdolamente, poi in modo sempre più manifesto, il timore di non riuscire nell’impresa ci assalì uno ad uno. Tuttavia, a dispetto delle previsioni più nefaste, per molti giorni non succedette nulla. Camminammo incessantemente per chilometri e chilometri, senza avvertire la benché minima fatica. Col tempo imparai a conoscere a fondo tutti gli altri membri, ognuno con le sue piccole manie, coi suoi veniali difettucci, ma tutti dotati di grandi virtù.
A stringere rapporti tenaci, ma non solo con me, furono per primi i lacci. Sull’aspetto esteriore non avevano nulla da invidiare a chicchessia: fisico asciutto e longilineo, tutti pelle e nervi, e non un filo di grasso (beninteso, c’è a chi tipi così proprio non piacciono, ma, si sa, de gustibus…). Ma quello che veramente mi colpiva, era il loro profilo psicologico. Rare volte in vita mia ho incontrato personalità più contorte. Nelle nostre lunghe giornate di cammino, non disdegnavo di passar molte ore parlando con i lacci del più e del meno ed ogni volta le loro fantastiche argomentazioni mi portavano da una parte, poi dall’altra, poi di nuovo da questa, costringendomi a complicati esercizi di concentrazione, intrecciando parole, frasi, locuzioni, in un orgiastico turbinio di lemmi che giungeva ad un climax di rara complicatezza, prima di risolversi, come per magia, in conclusioni tanto semplici (direi: lineari) che avreste esclamato: “Come ho fatto a non arrivarci da solo…”. La cosa più stupefacente, in ogni modo, è come questi incredibili oratori riuscissero, nonostante i ragionamenti così dannatamente arzigogolati, a non smarrire mai il filo del discorso.
Fu quindi per me un durissimo colpo, quando mi accorsi delle prime avvisaglie della crisi che li stava per cogliere. Inizialmente si manifestò con improvvise interruzioni nei loro lunghi discorsi, che poi, altrettanto repentinamente, riprendevano come se nulla fosse accaduto. Quasi nessuno se ne rese conto, almeno in un primo momento, tanto brevi erano queste pause. Ma col passare del tempo il fenomeno si faceva sempre più frequente e soprattutto più preoccupante. Alla lunga i loro lunghi intrecci cominciarono a risentirne sensibilmente. Nonostante continuassero a mostrarsi dei brillanti oratori, a volte le loro argomentazioni perdevano di mordente e non era più così inebriante lo starli ad ascoltare nelle lunghe ore di cammino. A poco a poco persero i legami che così fortemente avevano costruito in quel viaggio. La brutta situazione si protrasse fino a quando essi stessi, resisi conto dell’insostenibilità delle circostanze, si sciolsero definitivamente in un pianto a dirotto, che lasciò tutti con un groppo in gola. Era il preludio al peggio. Di lì a poco, infatti, si unirono ad un gruppo di passanti e ci abbandonarono definitivamente.
Il nostro viaggio, comunque, già volgeva al termine. Superata la paura di non farcela, vinta la tentazione di fermarsi o addirittura di tornare indietro, si camminava di buona lena, verso la meta ormai in vista. Appariva chiaro che tutti erano in buona condizione, anche se le tomaie erano senza un velo di dubbio, quelle più in forma. A dispetto delle difficoltà incontrate, di carattere sia fisico sia psicologico, esse si mantennero sempre lucide, impermeabili a qualsiasi turba. Erano loro i veri leader del inusitato gruppo che stava ormai per compiere l’impresa. La parola fine, però, non era ancora stata scritta. Un ultimo triste avvenimento doveva metterci a dura prova, non tanto nel fisico, quanto nello spirito.
Quei valorosi prodi che erano le tomaie, che per lunghi chilometri e tanti giorni avevano sopportato le ingiurie del tempo senza batter ciglio, cedettero a poche centinaia di metri dall’arrivo. Straziate, lacerate, caddero improvvisamente al suolo e non vi fu speranza di recuperarle. Il colpo fu fatale al nostro gruppo, che perdeva la sua vera identità. Se eravamo prontamente riconoscibili a tutti, era senza dubbio grazie a loro. Non ai simpatici tacchi, non alle prepotenti suole, non alle altezzose suolette, non ai fragili, geniali lacci, e neanche a me. Già, io… Anch’io mi fermai a quel punto, a riempire di silenzio l’incolmabile vuoto lasciato da quei dolorosi addio. Solo molto tempo dopo seppi, e non so quanto prestare fede a questa voce dal fiabesco sapore di leggenda popolare, che gli unici superstiti di quell’insolito gruppo, portarono a termine l’impresa. Mai integratisi nel gruppo, da tutti visti un po’ come degli estranei, i calzini riuscirono lì dove gli altri avevano fallito. Non era d’altra parte mistero ad alcuno che fossero gli unici veramente in gamba.

Paolo Mongillo






208 di 997 - 27/3/2014 11:11
lella6 N° messaggi: 1519 - Iscritto da: 01/2/2010



ALLACCIATE LE SCARPE(di Bruno Panebarco)


Forse il sole non era più il sole di una volta, e non riusciva più a scaldarci.
Forse la gente non era più la stessa, e aveva dimenticato di essere gente.
Avevano dimenticato di essere uomini e donne.
Forse Dio si era dimenticato di noi o non aveva più voglia di occuparsi dei propri figli.
Come nelle peggiori epoche dell’umanità, giorno dopo giorno, la luce era andata scomparendo e noi passavamo attoniti da un sopruso all’altro, da una privazione all’altra, da uno spregio a una irrisione, a un abuso, a un castigo.
Come i peggiori dei delinquenti, più di loro, venimmo privati delle nostre case, delle nostre attività, dei nostri lavori e, infine, anche della dignità.
Per un po’, ancora per un po’, continuammo a sperare che ci fosse stato un errore, sulle nostre persone, sulle nostre famiglie.
Quando ci dissero che noi tutti dovevamo indossare la stella di David e portarla ben in vista sui nostri vestiti, capimmo che non c’era stato nessun errore, ma la portammo comunque con orgoglio. Quella dignità ancora non ce l’avevano strappata.
Poi salimmo sui treni. Chi in primavera, chi d’estate, chi ancora d’inverno o d’autunno, come bestie. Animali dalle sembianze umane, vedemmo scorrere i paesaggi innevati o le campagne inondate di sole dei nostri paesi e poi territori e luoghi sconosciuti, e ancora, tra coloro che non morirono di stenti, pensammo che forse non era tutto perduto, e prima o poi tutto sarebbe finito e un giorno avremmo potuto fare ritorno alle nostre case.
Quell’intima speranza durò meno di niente e quando il cancello attraverso il quale transitò il treno, fu chiuso alle nostre spalle, scomparve mischiandosi al fumo acre che si vedeva al fondo del campo e si percepiva disgustoso e nauseabondo.
“Allacciate le scarpe” dicevano, “le ritroverete più facilmente dopo la doccia”.
Ma allora, perché strapparci i denti d’oro, prima?
Allacciate le scarpe. Non era più possibile credere. Credere e sperare.
Io avevo visto le montagne.
Montagne di scarpe Montagne di valigie Montagne di capelli Montagne di vestiti Montagne di spazzole Montagne di occhiali.
E poi, montagne di dolore e di disperazione.
Allacciate le scarpe, prima di entrare. Come se fosse un’ulteriore punizione, io li avevo visti morire. Morivano in piedi, uno affianco all’altro, quasi abbracciati, per farsi coraggio l’un l’altro. Rimanevano in piedi, non cadevano neanche, come strani, inanimati, terribili manichini ed in terra, sparsi ovunque sul pavimento, escrementi.
Non c’è azione che io possa fare, luogo che possa visitare, pensiero che possa avere, senza ricordare quel monito:
Allacciate le scarpe
Allacciate le scarpe
Allacciate le scarpe

&&&&&&&&&
Anche le scarpe hanno una loro dignità
a differenza degli uomini artefici
di tante crudeli efferatezze
209 di 997 - Modificato il 27/3/2014 13:36
lella6 N° messaggi: 1519 - Iscritto da: 01/2/2010
LA PRIMAVERA (Ugo Betti)

Quando il cielo ritorna sereno
come l'occhio di una bambina,
la primavera si sveglia. E cammina
per le mormoranti foreste,
sfiorando appena
con la sua veste color del sole
i bei tappeti di borraccina.
Ogni filo d'erba reca un diadema,
ogni stilla trema.
Qualche gemma sboccia
un po' timorosa
e porge la boccuccia color di rosa
per bere una goccia
di rugiada...
Nei casolari solitari
i vecchi si fanno sulla soglia
e guardano la terra
che germoglia.
La capinera prova una canzonetta
ricamata di trilli
e poi cinguetta
come una scolaretta. I grilli
bisbigliano maliziose parole
alle margherite
vestite
di bianco. Spuntano le viole …
A notte le raganelle
cantano la serenata per le piccole stelle.
I balconi si schiudono
perché la notte è mite,
e qualcuno si oblia
ad ascoltare quello che voi dite
alle piccole stelle
o raganelle
malate di malinconia.
210 di 997 - 05/4/2014 11:23
lella6 N° messaggi: 1519 - Iscritto da: 01/2/2010
Scrivere sulla cenere.
Pipe, sigari e sigarette nella letteratura moderna.


È una presenza emblematica quella del fumo nelle pagine di alcuni degli scrittori più rappresentativi della letteratura moderna tra Otto e Novecento. Il personaggio che dispone del tabacco, sia che con cura lo custodisca e lo prepari per un consumo elitario, sia che con generoso spirito cameratesco lo condivida con alcuni sodali, generalmente accentra su di sé significati profondi e allusivi ad una condizione umana di particolare rilievo, che viene tanto più sottolineata quanto più corrisponde ad un immaginario alternativo. Chi fuma è l’artista, l’eroe, l’adulto che segnala, esibendo il sigaro la sigaretta la pipa, una distinzione sociale, morale o intellettuale. La figura del fumatore subisce, così, un’operazione di sublimazione: essa è trasfigurata, ingigantita, mitizzata.
Si tratta di una pregnanza simbolica forte che non è, però, eterna e indistruttibile. All’incanto subentra il disincanto quando matura una consapevolezza nuova, lucida e amara: i miti si infrangono quando lo specchio rimanda l’immagine crudele di un morbo insidioso che proietta la sua ombra di morte. In questi istanti l’uomo può avvertire, nel suo sentirsi fragile e precario, il desiderio di rinascere e riemergere in una vita essenziale e pura.

1. Il fumo come segno di una diversità esclusiva e raffinata

Nella seconda metà dell’Ottocento, la pratica del fumo costituisce un elemento distintivo dell’immagine che l’artista decadente intende dare di sé. Pagine memorabili lo ritraggono nell’atto di consumare del tabacco, di pregiatissima provenienza, e di utilizzare per questo una serie di accessori, preziosi ed eleganti, che sottolineano una ricercatezza non fine a se stessa, esteriore e materiale, ma indicativa di una superiorità spirituale. Si tratta di una forma di auto-rappresentazione mediante la quale il dandy ribadisce la sua diversità rispetto alla società borghese massificata e alienata che ha posto al centro il capitale e ai margini l’arte, privata della sua aura sacrale e ridotta a merce di consumo.
Tuttavia, pur non essendo più investito di un ruolo istituzionale fondato sul prestigio e sul consenso sociale, l’artista declassato rovescia la propria posizione di reietto in una dimensione esistenziale ed ideologica esclusiva, da cui esercitare la nuova forza di opposizione e di rivolta messa in luce da Baudelaire: in questo modo l’anomalia diventa privilegio. Il privilegio è anche trasgressione, che non si manifesta mai come gesto plateale e autoreferenziale, ma è rivelazione della supremazia dello spirito mediante il culto raffinato e aristocratico dei piaceri più intensi, in particolare di quelli censurati dalla morale borghese.
Voluttuosamente l’artista decadente si abbandona al vizio. Fumare, lo si legge nel sonetto baudelairiano dedicato alla pipa, ha il potere incantatorio e fascinoso di alleviare il dolore: l’anima è come ammaliata dalla avviluppante «rete mobile e cilestrina» delle spiraliformi esalazioni del tabacco «in fiamme». Si noti che la pipa è qui personificata, parla in prima persona e svolge un ruolo attivo: essa esercita una seduzione da cui l’artista si lascia ipnoticamente irretire per accrescere, a sua volta, il fascino della sua figura alternativa e al di fuori della norma. La cortina di fumo è protettiva e, al tempo stesso, misteriosa per lo sguardo che dall’esterno ne è attratto e tenta di penetrarla: mentre se ne serve per mitigare il disagio della sua condizione “maledetta”, l’artista esibisce il capzioso intrico dei fili di fumo e in esso ambiguamente si manifesta.
Va in direzione di un estetismo più esibito il significato che assumono le esclusive «sigarette russe» con cui Andrea Sperelli, protagonista del Piacere di D’Annunzio, riempie un bellissimo «astuccio d’oro». L’assunzione di tabacco è inserita in un contesto socio-culturale del tutto mondano e fatuo, quello della ricca aristocrazia romana dedita al culto del bello e del lusso. La tipologia stessa degli oggetti che corredano la pratica del fumo si eleva al tono sublime e magnifico di cui ogni cosa rifulge nel repertorio simbolista dannunziano. Il dandy non può che circondarsi di oggetti preziosi ed esotici che siano simbolo di distinzione sociale e di perfezionamento estetico per il «giovine signore moderno»: sigarette russe, gardenie, profumi rari. Tutto risponde al progetto di “fare la propria vita, come si fa un’opera d’arte”.
In modo affine il piacere del fumo è connotato in senso simbolicamente esclusivo nel capolavoro di Thomas Mann, La montagna incantata, dove si rappresenta il variegato panorama umano e intellettuale che si offre al protagonista Hans Castorp durante la lunga frequentazione del sanatorio svizzero di Davos, alla vigilia dello scoppio della prima guerra mondiale. L’assuefazione al fumo diviene metafora dell’intreccio di decadenza, malattia e raffinatezza spirituale che si viene a creare nel microcosmo sospeso della “montagna incantata” su cui sorge la clinica dove è ricoverato Hans Castorp, tipico esponente della agiata e bene educata borghesia mercantile. Nonostante sia vietato dai medici, il rito del sigaro non cessa di essere, per il giovane, un puro godimento, espressione di una civiltà raffinata e basata su solidi e sani principi; una civiltà, tuttavia, in declino e sulla quale sta per abbattersi la distruzione della guerra. Agli «aromatici veleni» del fumo Castorp, pur malato, non rinuncia: per lui fumare rappresenta «la parte migliore della vita e in ogni caso un piacere squisito». Di fronte al prorompente e vitale signor Peeperkon, sostenitore delle genuine gioie del vivere e assai critico rispetto al sofisticato vizio del fumo, Castorp ammetterà che fumare può essere una spia, per quanto nobile, di debolezza e di corruzione morale, che però si giustifica al pensiero che viviamo in un mondo per lo più pervaso dalla mediocrità dove l’integrità e la salute sono qualità assai rare.
211 di 997 - Modificato il 05/4/2014 11:31
lella6 N° messaggi: 1519 - Iscritto da: 01/2/2010
2. La sigaretta e il mondo degli adulti

Nei primi decenni del Novecento, mano a mano che le teorie psicanalitiche penetrano nei retrivi ambienti culturali italiani, gli scrittori più accorti, che hanno maturato interessi di tipo psicologico, affinano le loro capacità introspettive e iniziano a guardare alla realtà dei loro personaggi da angolazioni diverse e con una attenzione particolare ai fenomeni interiori. Analogamente muta il modo di guardare all’immagine simbolica del fumo, strettamente connessa ora al rapporto problematico tra adolescenza ed età adulta, con speciale riguardo al legame tra padre e figlio, per lo più indagato in virtù delle implicazioni edipiche rivelate negli scritti freudiani.
Fondamentale nel capolavoro di Federico Tozzi, Con gli occhi chiusi, composto nel 1913 e pubblicato nel 1919, è l’iniziale difficile confronto che si stabilisce tra Pietro e l’autorità paterna: Pietro è un tredicenne timido e fragile, la cui inettitudine rispetto non solo agli studi ma anche alle mansioni pratiche si manifesta precocemente, accompagnata da una forte propensione al sogno ad occhi aperti che lo preserva dal contatto doloroso con la vita reale; inevitabile l’effetto castrante che ha su di lui il rapporto con il padre Domenico, uomo collerico e rude, pragmaticamente proiettato verso la realizzazione economica assicurata dalla vantaggiosa gestione di una trattoria in città. Ad un dato momento Pietro crederà di trovare in Giacco, il fattore del podere appartenente alla sua famiglia nonché nonno di Ghisola, una figura “buona” sostitutiva del padre e cercherà di ingraziarselo con l’offerta delle cicche che il vecchio dimostra di apprezzare. Pietro è il «padroncino» che non può ancora fumare, data la giovane età; Giacco è l’adulto in grado di immetterlo nel mondo dei grandi; il fumo diviene l’elemento basilare di una iniziazione simbolica. Si noti, nel brano riportato, il rilievo espressionistico dato ai gesti di Giacco nell’apprestare la pipa: emerge in primo piano quel «pollice che aveva l’unghia mozzata da un taglio fattosi da giovine» che, nel linguaggio dei simboli, potrebbe alludere ad un rituale taglio iniziatico. E, poi, di colpo, nell’annebbiamento prodotto dal fumo si spalanca una dimensione onirica in cui Pietro “vede” la cara madre, donna docile e impotente che nulla di preciso ha da offrirgli per traghettarlo nella vita adulta se non il conforto di un profondissimo amore.
Notissima è l’incidenza della sigaretta sulla vita del protagonista di La coscienza di Zeno (1923), il romanzo con cui Italo Svevo rivoluziona i canoni narrativi tradizionali segnalandosi sia per la novità della tecnica compositiva del monologo interiore sia per l’importanza assegnata al tema della psicanalisi. Come narra Zeno Cosini nel capitolo dedicato al problema del fumo, disintossicarsi è il proposito incessantemente perseguito da sin dai tempi della sua gioventù e mai concretizzato, cosicché il motivo dell’ “ultima sigaretta” è da annoverare tra i numerosi “atti mancati” di cui è costellata la sua esistenza. Il tentativo perennemente frustrato di smettere di fumare è un indizio ricorrente di una ambivalenza emotiva e psicologica radicata nel personaggio, scisso tra un desiderio professato di liberarsi dal vizio ed integrarsi “sano” tra i “sani” e un desiderio latente di persistere nel vizio sia per una forma di resistenza alla assimilazione nel mondo borghese e, quindi, di difesa della sua diversità, sia perché fumare rappresenta una sorta di alibi, dal momento che egli imputa alla sigaretta la causa della propria inettitudine. Ritardare il momento della guarigione significa ritardare il momento di un confronto con se stesso che potrebbe anche essere la scomoda conferma della sua inadeguatezza a vivere con successo all’interno di un sistema di vita fondato sulle certezze, non importa quanto false e illusorie, di coloro che lo circondano: «Adesso che son qui, ad analizzarmi, sono colto da un dubbio: che io forse abbia amato tanto la sigaretta per poter riversare su di essa la colpa della mia incapacità?».
Inoltre, è importante rilevare che la ragione per cui Zeno ha cominciato a fumare è riconducibile al rapporto conflittuale, di amore-odio, con la figura paterna. Da bambino egli rubava i mozziconi di sigaro al padre non solo per un naturale processo di identificazione, ma anche, poiché ciò significava la violazione di un divieto, per una pulsione contraria: Zeno fuma per essere come il padre e, al tempo stesso, per essere contro il padre. Indipendentemente dal fatto che la diagnosi edipica sia valida ed accettabile (Zeno Cosini la rifiuterà ed abbandonerà la terapia psicanalitica), risulta manifesta la forza pervicace di un vizio, soprattutto quando su di esso l’inconscio proietta l’oscura vitalità di un simbolo.



212 di 997 - 05/4/2014 11:35
lella6 N° messaggi: 1519 - Iscritto da: 01/2/2010
3. Il valore politico-sociale della sigaretta

Nella poesia intitolata Nuove stanze è una sigaretta che diviene segretamente evocativa quella tenuta tra le mani sapienti ed eleganti di Clizia, la donna-angelo a cui Montale assegna una funzione salvifica in quanto associata al privilegio della cultura e della civiltà. In questi versi composti nel 1939, un anno tragico per la storia europea, il poeta e la donna, al chiuso di un ambiente rassicurante, assorti giocano a scacchi. All’esterno imperversano i preparativi della seconda guerra mondiale sostenuti dalla follia politica dei regimi autoritari del nazismo e del fascismo.
Attraverso un raffinato gioco di analogie e di parallelismi, avviene la trasfigurazione, in senso nobilitante e sacrale, della «spirale del fumo» che esala dalla sigaretta posata sul «piatto di cristallo»: quasi per un sortilegio, i fili di fumo che si innalzano in morbide volute, agli occhi del poeta, costruiscono un’immaginaria città sospesa – correlativo oggettivo della cittadella della cultura - che però svanisce all’improvviso aprirsi della finestra («La morgana che in cielo liberava / Torri e ponti è sparita / Al primo soffio»). Fuori scatena la sua ridda infernale «una tregenda / D’uomini che non sa questo tuo incenso». Il fumo è sottoposto ad un’operazione derealizzante e acquista connotati simbolici; su di esso, emanazione e prolungamento di Clizia, si trasferiscono le qualità dell’aristocrazia intellettuale incarnata dalla donna. L’edificio evanescente e filiforme del fumo metaforizza la supremazia del lavoro intellettuale che, pur nella separatezza di una “torre d’avorio”, non è immune dal tragico avanzare della barbarie. Se la storia può turbare e sconvolgere l’esercizio illuminato della cultura, la cultura ha, a sua volta, i mezzi e la forza per opporsi alle brutali sortite della storia? Posto di fronte a questo cruciale interrogativo, il poeta, nei versi conclusivi della poesia, conferma la fiducia nell’autonomia dell’esercizio della mente e nei suoi effetti di tipo etico e conoscitivo: «Ma resiste / E vince il premio della solitaria / Veglia chi può con te allo specchio ustorio / Che accieca le pedine opporre i tuoi / Occhi d’acciaio».
Nei romanzi del filone resistenziale la sigaretta acquista ancor più manifestamente un valore ideologico e politico. Nelle mani dei partigiani essa diviene mezzo di condivisione, segno di appartenenza, barlume di libertà: il gesto che più frequentemente compie chi possiede il tabacco è quello dell’offerta spontanea e generosa ai compagni di lotta. In Per chi suona la campana di Hemingway, il protagonista Robert Jordan, giunto da poco presso la pattuglia di combattenti spagnoli che dovrà coordinare in un’impresa antifranchista, vince la diffidenza iniziale porgendo delle sigarette: non sigarette qualsiasi, ma russe; il che equivale a dire antifasciste e comuniste. Si pensi come al mutare delle circostanze storiche, il medesimo oggetto muti di significato: sarebbe sufficiente ricordare che anche l’esteta Andrea Sperelli e il raffinato Hans Castorp fumano sigarette russe, ma non certo per le loro implicazioni politiche.
Nell’opera di Fenoglio, il contesto non differisce di molto rispetto agli altri brani presentati in questa sezione: che il dittatore si chiami Franco o Mussolini, è sempre una storia di lotta per la giustizia e la libertà che viene raccontata. Il partigiano Johnny, dopo un’azione vittoriosa, è con una sigaretta che premia l’eroe valoroso; ed è sempre una sigaretta che implora il soldato intirizzito sotto il diluvio, nel fango, per un momento di conforto ristoratore. La provenienza del tabacco, stavolta, è inglese: un fumo che ha il sapore della democrazia.
Con Tabucchi ci avviciniamo ad un presente che nulla ha imparato dal passato se ancora reca i segni dalla sopraffazione del più forte sul più debole e rispetto al quale non rimane, avendone il coraggio e la lucidità necessaria, che tentare la via della denuncia sociale. In questa avvincente trama poliziesca che vede il giornalista Firmino e l’avvocato Loton coalizzati per scoprire la verità sulla morte di Damasceno Monteiro, un giovane il cui cadavere è stato trovato decapitato, emerge una doppia e antitetica significazione legata alla pratica del fumo: si va da un massimo riconoscimento di dignità ad un massimo di orrore. Si consideri, da un lato, il sigaro di Loton che assume una inequivocabile valenza positiva, non solo perché associato ad un personaggio schierato dalla parte del bene, ma anche perché quel personaggio difende la libertà e il piacere del fumo, in quanto la possibilità stessa di fumare è indice di libertà non solo individuale ma sociale. Per contrasto, il divieto del fumo che campeggia negli uffici della polizia, per quanto sia il prodotto di un sistema fondato sul diritto, appare sinistro: è il sergente Silva, un tempo seguace di Salazar, a escludere sarcasticamente, proprio in virtù di quel civilissimo divieto, che qualcosa di anomalo e di illegale sia avvenuto in quegli uffici a Monteiro durante il suo stato di arresto. Eppure il corpo del giovane porta evidenti segni di bruciature.
La verità emergerà nel finale in tutta la sua crudezza. La sigaretta è stata usata in maniera perversa come strumento di tortura: «Dato che in commissariato non si può fumare, Damasceno Monteiro era un ottimo portacenere per spegnere le cicche». Quanto mai ironica suona, allora, la scritta sui pacchetti di sigarette che avverte che «l’uso del tabacco provoca gravi danni alla salute».


213 di 997 - 05/4/2014 11:42
lella6 N° messaggi: 1519 - Iscritto da: 01/2/2010
4. Il fumo e il cancro: la desublimazione di un simbolo.

Se Tabucchi gioca sul tema degli effetti nocivi del fumo per evidenziare che il male non è nella sigaretta in se stessa, che anzi mantiene inalterata la sua positiva funzione simbolica, ma, in primo luogo, nella coscienza dell’uomo, il giovane scrittore Ammaniti dimostra di considerare in modo iper-realistico quegli effetti, tanto da prendere il lettore e metterlo di fronte al loro micidiale prodotto: il cancro.
Nelle pagine iniziali di Branchie si assiste ad una assoluta desublimazione dei poteri trasfiguranti del fumo. Il che avviene non senza un certo gusto sgradevolmente trash accompagnato alla tendenza a presentare situazioni estreme, siano esse verosimili o scaturite da una immaginazione iperbolica. Il protagonista è un giovane, Marco Donati, malato terminale: nel brano riportato egli parla della rinuncia definitiva al fumo a cui lo hanno obbligato i medici, rinuncia che, insieme ad altre, lo ha denudato delle sovrastrutture fittizie che componevano la sua personalità e gli ha permesso una diversa percezione della sua identità di uomo. La privazione significa una sorta di ritorno alle origini, ai bisogni primari ed essenziali; essa equivale ad una purificazione, ad un azzeramento di sé da cui ripartire per intraprendere un nuovo viaggio che lo porterà lontano, a rinascere nel mondo della fantasia e della letteratura dove ogni metamorfosi è possibile.

A cura di Silvia Bellotto

214 di 997 - Modificato il 10/8/2014 10:23
lella6 N° messaggi: 1519 - Iscritto da: 01/2/2010
Amicizia (Poema a la amistad)



Non posso darti soluzioni per tutti i problemi della vita
Non ho risposte per i tuoi dubbi o timori,
però posso ascoltarli e dividerli con te
Non posso cambiare né il tuo passato né il tuo futuro
però quando serve starò vicino a te
Non posso evitarti di precipitare, solamente posso offrirti la mia mano perché ti sostenga e non cadi
La tua allegria, il tuo successo e il tuo trionfo non sono i miei
però gioisco sinceramente quando ti vedo felice
Non giudico le decisioni che prendi nella vita
mi limito ad appoggiarti a stimolarti e aiutarti se me lo chiedi
Non posso tracciare limiti dentro i quali devi muoverti,
però posso offrirti lo spazio necessario per crescere
Non posso evitare la tua sofferenza, quando qualche pena ti tocca il cuore
però posso piangere con te e raccogliere i pezzi per rimetterlo a nuovo.
Non posso dirti né cosa sei né cosa devi essere
solamente posso volerti come sei ed essere tua amica.
In questo giorno pensavo a qualcuno che mi fosse amico
in quel momento sei apparso tu...
Non sei né sopra né sotto né in mezzo non sei né in testa né alla fine della lista
Non sei né il numero 1 né il numero finale e tanto meno ho la pretesa
di essere il 1° il 2° o il 3° della tua lista
Basta che mi voglia come amico

Poi ho capito che siamo veramente amici.

Ho fatto quello che farebbe qualsiasi amico:

ho pregato e ho ringraziato Dio per te.

Grazie per essermi amico.





No puedo darte soluciones para todos los problemas de
la vida, ni tengo respuestas para tus dudas o temores,
pero puedo escucharte y compartirlo contigo.
No puedo cambiar tu pasado ni tu futuro.
Pero cuando me necesites estaré junto a ti.
No puedo evitar que tropieces.
Solamente puedo ofrecerte mi mano para que te sujetes
y no caigas.
Tus alegrías, tus triunfos y tus éxitos no son míos.
Pero disfruto sinceramente cuando te veo feliz.
No juzgo las decisiones que tomas en la vida.
Me limito a apoyarte, a estimularte y a ayudarte si me
lo pides.
No puedo trazarte limites dentro de los cuales debes
actuar, pero si te ofrezco el espacio necesario para
crecer.
No puedo evitar tus sufrimientos cuando alguna pena te
parta el corazón, pero puedo llorar contigo y recoger
los pedazos para armarlo de nuevo.
No puedo decirte quien eres ni quien deberías ser.
Solamente puedo quererte como eres y ser tu amigo.
En estos días oré por ti...
En estos días me puse a recordar a mis amistades mas
preciosas.
Soy una persona feliz: tengo mas amigos de lo que
imaginaba.
Eso es lo que ellos me dicen, me lo demuestran.
Es lo que siento por todos ellos.
Veo el brillo en sus ojos, la sonrisa espontánea y la
alegría que sienten al verme.
Y yo también siento paz y alegría cuando los veo y
cuando hablamos, sea en la alegría o sea en la
serenidad, en estos días pense en mis amigos y amigas,
entre ellos, apareciste tu.
No estabas arriba, ni abajo ni en medio.
No encabezabas ni concluías la lista.
No eras el numero uno ni el numero final.
Lo que se es que te destacabas por alguna cualidad que
transmitías y con la cual desde hace tiempo se
ennoblece mi vida.
Y tampoco tengo la pretensión de ser el primero, el
segundo o el tercero de tu lista.
Basta que me quieras como amigo.
Entonces entendí que realmente somos amigos.
Hice lo que todo amigo:
Oré... y le agradecí a Dios por ti.

Gracias por ser mi amigo.

George Luis Borge (forse)
215 di 997 - Modificato il 07/8/2014 12:22
lella6 N° messaggi: 1519 - Iscritto da: 01/2/2010
l'amicizia secondo Saint-Exupery da " Il piccolo principe"

[..]La volpe tacque e guardo' a lungo il piccolo principe:
"Per favore... addomesticami", disse.
"Volentieri", disse il piccolo principe, "ma non ho molto tempo, pero'. Ho da scoprire degli amici, e da conoscere molte cose".
"Non si conoscono che le cose che si addomesticano", disse la volpe. "Gli uomini non hanno piu' tempo per conoscere nulla. Comprano dai mercanti le cose gia' fatte. Ma siccome non esistono mercanti di amici, gli uomini non hanno piu' amici. Se tu vuoi un amico addomesticami!"
"Che cosa bisogna fare?" domando' il piccolo principe.
"Bisogna essere molto pazienti", rispose la volpe. "In principio tu ti sederai un po' lontano da me, cosi', nell'erba. Io ti guardero' con la coda dell'occhio e tu non dirai nulla. Le parole sono una fonte di malintesi. Ma ogni giorno tu potrai sederti un po' piu' vicino..."
Il piccolo principe ritorno' l'indomani.
"Sarebbe stato meglio ritornare alla stessa ora", disse la volpe.
"Se tu vieni, per esempio, tutti i pomeriggi alle quattro, dalle tre io comincero' ad essere felice. Col passare dell'ora aumentera' la mia felicita'. Quando saranno le quattro, incomincero' ad agitarmi e ad inquietarmi; scopriro' il prezzo della felicita'! Ma se tu vieni non si sa quando, io non sapro' mai a che ora prepararmi il cuore... Ci vogliono i riti".
"Che cos'e' un rito?" disse il piccolo principe.
"Anche questa e' una cosa da tempo dimenticata", disse la volpe. "E' quello che fa un giorno diverso dagli altri giorni, un'ora dalle altre ore. C'e' un rito, per esempio, presso i miei cacciatori. Il giovedi ballano con le ragazze del villaggio. Allora il giovedi e' un giorno meraviglioso! Io mi spingo sino alla vigna. Se i cacciatori ballassero in un giorno qualsiasi, i giorni si assomiglierebbero tutti, e non avrei mai vacanza".
Cosi' il piccolo principe addomestico' la volpe.
E quando l'ora della partenza fu vicina:
"Ah!" disse la volpe, "... piangero'".
"La colpa e' tua", disse il piccolo principe, "io, non ti volevo far del male, ma tu hai voluto che ti addomesticassi..."
"E' vero", disse la volpe.
"Ma piangerai!" disse il piccolo principe.
"E' certo", disse la volpe.
"Ma allora che ci guadagni?"

Ci guadagno", disse la volpe, "il colore del grano".
Poi soggiunse:
"Va' a rivedere le rose. Capirai che la tua e' unica al mondo. Quando ritornerai a dirmi addio, ti regalero' un segreto".
Il piccolo principe se ne ando' a rivedere le rose.
"Voi non siete per niente simili alla mia rosa, voi non siete ancora niente", disse. "Nessuno vi ha addomesticato, e voi non avete addomesticato nessuno. Voi siete come era la mia volpe. Non era che una volpe uguale a centomila altre. Ma ne ho fatto il mio amico ed ora e' per me unica al mondo".
E le rose erano a disagio.
"Voi siete belle, ma siete vuote", disse ancora. "Non si puo' morire per voi. Certamente, un qualsiasi passante crederebbe che la mia rosa vi rassomigli, ma lei, lei sola, e' piu' importante di tutte voi, perche' e' lei che ho innaffiata. Perche' e' lei che ho messa sotto la campana di vetro. Perche' e' lei che ho riparata col paravento. Perche' su di lei ho uccisi i bruchi (salvo i due o tre per le farfalle). Perche' e' lei che ho ascoltato lamentarsi o vantarsi, o anche qualche volta tacere. Perche' e' la mia rosa".
E ritorno' dalla volpe.
"Addio", disse

"Addio", disse la volpe. "Ecco il mio segreto. E' molto semplice: non si vede bene che col cuore. L'essenziale e' invisibile agli occhi".
"L'essenziale e' invisibile agli occhi", ripete' il piccolo principe, per ricordarselo.
"E' il tempo che tu hai perduto per la tua rosa che ha fatto la tua rosa cosi' importante".
"E' il tempo che ho perduto per la mia rosa..." sussurro' il piccolo principe per ricordarselo.
"Gli uomini hanno dimenticato questa verita'. Ma tu non la devi dimenticare. Tu diventi responsabile per sempre di quello che hai addomesticato. Tu sei responsabile della tua rosa..."
"Io sono responsabile della mia rosa..." ripete' il piccolo principe per ricordarselo.





216 di 997 - 18/8/2014 17:25
lella6 N° messaggi: 1519 - Iscritto da: 01/2/2010
In questi giorni tutti i media sono concentrati per la maggiore
sulle atrocità commesse dai fanatici del califfato irakeno. Il fanatismo
religioso e non, deve essere in qualsiasi modo condannato senza
se e senza ma.

Enciclopedia: preghiera contro il fanatismo



Ci troviamo di fronte ad una bellissima pagina del Settecento, tratta dalla grande Enciclopedia Francese, in cui convergono i pensieri dei filosofi illuministi, impegnati attivamente a sostegno della tolleranza religiosa e della libertà di pensiero. Il brano fa parte di una delle numerosi voci della Enciclopedia, quella sul fanatismo religioso.
L’Europa del ‘700 ormai conosce bene gli eccessi di tutti quelli che, in nome di Dio, perseguitano ferocemente quanti seguono una diversa religione. Dopo la riforma protestante del ‘500 cattolici si sono scagliati contro protestanti; protestanti hanno distrutto chiese cattoliche; nel ‘600 la Germania è stata devastata dai massacri, ora di cattolici ora di protestanti, della terribile guerra dei 30 anni; nella seconda metà del ´500 la Francia è rimasta paralizzata dalla guerra civile fra francesi cattolici e francesi calvinisti, detti ugonotti. Nel Settecento la chiesa cattolica è forte ed intransigente: è duramente ostile verso i protestanti ed in più, amministrando l’istituzione della censura, controlla rigidamente ogni forma culturale, ostacolando la pubblicazione della stessa Enciclopedia, che tuttavia sarà un grande successo editoriale.
Alla mentalità propria degli illuministi, che per risolvere ogni problema si attengono ai “lumi della ragione umana”, ripugnano profondamente le posizioni oltranziste di ogni tipo di fanatismo, religioso e non. Il celebre illuminista Voltaire definisce il fanatismo “una follia religiosa tenebrosa e crudele; è una malattia che si prende come il vaiolo”.

PREGHIERA CONTRO IL FANATISMO
Il brano che esaminiamo si presenta come una preghiera.

“Tu che vuoi il bene di tutti gli uomini e vuoi che nessuno perisca, poiché non trai alcun godimento dalla morte del malvagio, liberaci non dalle devastazioni della guerra e dei terremoti, che sono mali passeggeri, limitati e del resto inevitabili, ma dal furore dei persecutori che invocano il tuo santo nome. Insegna loro che tu odi il sangue, che l’odore delle carni immolate non giunge fino a te e che non ha il potere di dissipare i fulmini nell’aria, né di far discendere la rugiada dal cielo”.

“Tu che vuoi il bene di tutti” è proprio quel Dio, per cui i fanatici compiono le più assurde crudeltà. E’ ovvio che Dio non ama l’assassinio di massa, né le stragi di eretici o di infedeli, poiché non gioisce per la morte di nessuno, neanche di quella del malvagio.

“Illumina i tuoi zelatori, affinché si guardino almeno dal confondere l’olocausto con l’omicidio. Riempili a tal punto d’amore per se stessi che essi possano dimenticare il loro prossimo, poiché la loro pietà è una virtù unicamente distruttiva. Qual è l’uomo che hai incaricato di curare le tue vendette, che non le meriti cento volte più delle vittime che ti immola? Fa’ comprendere che non è né la ragione né la forza, ma la tua luce e la tua bontà a condurre le anime nelle tue vie, e che è un insulto al tuo potere mescolarvi il braccio dell’uomo”.

Qui emerge la terribile contraddizione del fanatico – lo zelatore che uccide in nome Dio –, crudele e spietato contro tutti quelli che giudica in errore e che sacrifica a quel Dio, che, come abbiamo visto, invece vuole il bene di tutti gli uomini. I fanatici sono pericolosi, molto pericolosi, poiché commettono orrori senza rimorso, ma con il pieno compiacimento di fare cosa giusta e meritoria.
Dio, se vuole, fa presa sulle coscienze umane con la bontà, con l’illuminazione della fede: non ha bisogno né del potere dell’autorità politica, né della violenza dell’uomo che pretende di difendere Dio stesso da presunti nemici.
Infatti così continua la preghiera.

“Quando hai voluto creare l’universo, l’hai forse chiamato in tuo aiuto? E se ti piace invitarmi al tuo banchetto, non sei forse infinito nei tuoi prodigi? Ma tu non vuoi salvarci nostro malgrado. Perché non si imita la dolcezza della tua grazia e si pretende di invitarmi ad amarti con terrore? Diffondi sulla terra lo spirito di umanità e questo amore universale che ci riempie di venerazione per tutti gli esseri, con i quali condividiamo il dono prezioso del sentimento, tanto che l’oro e gli smeraldi fusi insieme non potrebbero mai eguagliare ai tuoi occhi il sentimento di un cuore tenero e compassionevole e ancor meno espiare l’orrore di un omicidio”.

Grande concezione di Dio, il quale si trova tanto al di sopra degli uomini che mai pretenderebbe di salvarli contro la loro volontà o di farsi amare con il sangue e con il terrore!
Viene quindi espresso l’augurio che Dio, comunque possa esistere ed essere inteso, abbia il potere di spargere per il mondo il sentimento di umanità.
217 di 997 - 10/1/2015 14:05
lella6 N° messaggi: 1519 - Iscritto da: 01/2/2010
--
index.php?option=com_content&view=article&id=2331:qgianni-letta-biografia-non-autorizzataq-di-arena-e-barone&catid=17:libri&Itemid=29
218 di 997 - 12/1/2015 15:19
giustiziere N° messaggi: 855 - Iscritto da: 27/11/2012
eppure signora lella avrei giurato che anche quello li avesse la faccia di uno che ruba ai ricchi per dare ai poveri.Mi trovo disorientato ahimè sono uno crede ancora a Babbo Natale
219 di 997 - 29/1/2015 11:57
lella6 N° messaggi: 1519 - Iscritto da: 01/2/2010

L'ILLUMINISMO E LA FORMAZIONE DELL'UOMO MODERNO


Una dei caratteri fondamentali dell'illuminismo è il rifiuto di considerare gli uomini diversi tra loro per nascita. Le differenze che si riscontrano tra gli uomini sono soltanto in piccola parte frutto della loro natura, tutto il resto dipende dall'educazione, ed in particolar modo dall'influenza della società sulla loro formazione. Gli illuministi sono stati, con profonda convinzione, i progettisti di una nuova società, gli "ingegneri sociali" del loro tempo. Hanno proposto una nuova visione dell'uomo, essenzialmente basata sull'idea di eguaglianza garantita dalla ragione, davvero eguale per tutti, sviluppando uno degli aspetti centrali dell'umanesimo .

Non sorprende quindi affatto che nell'illuminismo vi sia stata la più grande attenzione per l'educazione e per il rapporto tra la formazione dell'uomo e la costruzione di una società nuova, che permetta agli uomini di vivere in libertà ed eguaglianza. Il legame tra la sfera dell'educazione dell'uomo e quella dell'educazione del cittadino che abbiamo osservato al tempo della polis greca - tema che rimane in ombra per tutto il Medioevo a favore di un altro tema greco, quello della virtù e di chi può insegnarla all'uomo - torna in primo piano. Si tratta per gli illuministi di ripensare la società in modo tale che essa consenta agli uomini di vivere nella pienezza del loro essere uomini. Il termine virtù in filosofi come Locke o Rousseau non indica l'adesione ad un modello ideale o a un insieme di valori di natura religiosa: non indica altro che la piena realizzazione dell'uomo integrale, dell'uomo nella pienezza della sua personalità. Al centro di questa personalità è la ragione, l'autonoma ragione, quella che Kant considererà essere istitutrice di un tribunale di fronte a cui ogni sapere deve essere portato.

[..]In tema di iluminismo non si può non citare, almeno di passaggio, la posizione di Condorcet, l'illuminista che nel 1792 presentò all'Assemblea legislativa il progetto più completo e organico di riforma dell'educazione nella Francia rivoluzionaria. Il suo principio ispiratore è di matrice prettamente illuminista: l'istruzione rende liberi dai pregiudizi e quindi dalla miseria. Pertanto lo scopo principale di un'educazione nazionale è di offrire a tutti i mezzi per provvedere ai propri bisogni ed esercitare i propri diritti, così da contribuire al benessere comune nel quadro di una effettiva uguaglianza degli individui. Infatti nel riconoscimento del dovere dello Stato di dare a tutti, donne comprese, la possibilità di ricevere un insegnamento completo, verranno rimosse le disparità economiche e di sesso, che sono storiche e non naturali, mentre saranno le capacità individuali a determinare il grado di istruzione raggiungibile da ciascuno.

Nel progetto di Condorcet la scuola resta sostanzialmente libera dallo Stato, poiché "nessun potere pubblico deve avere l'autorità di impedire lo sviluppo di verità nuove o l'insegnamento di teorie contrarie alla sua particolare politica". La scuola dovrà limitarsi all'istruzione, ad un insegnamento rigorosamente fondato sull'oggettività dei fatti, evitando di trasmettere opinioni politiche o religiose che sono di competenza delle famiglie e delle Chiese. Dunque il legame tra la formazione dell'uomo e la formazione del cittadino è garantito, ma lo Stato come organizzazione politica deve rispettare fino in fondo la libertà di insegnamento. La sfera della cultura è pienamente autonoma, non potendo la ragione sottostare ad una autorità superiore.

E' questa una tesi cara agli illuministi. Kant la fa propria nel celebre articolo Che cos'è l'illuminismo?, in cui scrive: "L'Illuminismo è l'uscita dell'uomo da uno stato di minorità il quale è da imputare a lui stesso. Minorità è l'incapacità di servirsi del proprio intelletto senza la guida di un altro. Imputabile a se stessi è questa minorità se la causa di essa non dipende da difetto di intelligenza, ma dalla mancanza di decisione e del coraggio di servirsi del proprio intelletto senza esser guidati da un altro. Sapere aude! Abbi il coraggio di servirti della tua propria intelligenza! - è dunque il motto dell’illuminismo".Tuttavia, uno stato di minorità nella vita di ciascuna persona esiste, ed è la minore età: il problema dell'educazione è quindi per l'illuminismo una questione centrale, perché si tratta di realizzare nell'adulto quella capacità di servirsi del proprio intelletto che restituisce pienamente l'uomo alla dignità della sua persona.[..]

Mario Trombino -
220 di 997 - 29/1/2015 12:01
lella6 N° messaggi: 1519 - Iscritto da: 01/2/2010
Invettiva di Timone....(William Shakespeare)


il quale, dopo avere dissipato i suoi beni per generosità verso coloro che credeva amici, e da questi respinto nel momento del bisogno , si ritira in una grotta odiando tutti e tutto.....


""Ch'io mi volga indietro a guardarti. O tu, muraglia che ricingi quei lupi, sprofonda nella terra e non proteggere più Atene! Diventate incontinenti, matrone! L'obbedienza sparisca nei fanciulli! Schiavi e pazzi, strappate i grinzosi senatori dai loro seggi e amministrate le leggi in loro vece! In pubbliche bagasce mutatevi all'istante, fresche virginità! Fatelo sotto gli occhi dei vostri genitori! Voi, falliti, tenete duro, e invece di pagare, fuori i coltelli e tagliate la gola dei vostri creditori! Servi giurati, rubate! I vostri austeri padroni sono ladri a man bassa e saccheggiano in nome della legge. E tu serva, va' nel letto del padrone, poiché la tua signora è di bordello. Figlio sedicenne, strappa la gruccia imbottita del tuo vecchio padre zoppicante e con essa spaccagli il cervello! Pietà, timore, devozione agli dei, pace giustizia, verità, domestica reverenza, riposo notturno, buon vicinato, cultura, costumi, arti e mestieri, gerarchie, riti, consuetudini e leggi, decadete nei vostri deleteri opposti, e solo viva il caos! Pestilenze che colpite gli uomini, ammassate le vostre potenti e infette febbri su Atene, matura alla rovina! E tu, fredda sciatica, storpia i nostri senatori, così che lussuria e libidine, nel cuore e nel midollo della nostra gioventù, in dissolutezza! Rogne e pustole, disseminatevi sul petto degli Ateniesi e la loro mèsse sia una lebbra universale! L'alito infetti l'alito, sì che la loro società, come la loro amicizia, sia solo veleno! Da te voglio portar via nient'altro che nudità, o città detestabile! Prendi anche questa con innumerevoli maledizioni! Timone se n'andrà nelle foreste dove troverà bestie selvagge molto più miti dell'uman genere. Confondano gli dei (uditemi voi tutti. buoni dèi!) gli ateniesi, dentro e fuori queste mura! E concedano che con la vita di Timone cresca anche il suo odio per tutta la razza degli uomini, grandi e umili! Amen.""

William Shakespeare -Timone d'Atene

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Certo che Willy ci va giù pesante, i nostri grillini al confronto sono degli abatini!
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