Le istituzioni internazionali accusano spesso l'Italia di non saper innovare. Eppure, per quanto straordinaria, una storia come quella di Leonardo Del Vecchio non è isolata nell'industria italiana. L'elenco degli imprenditori con all'attivo la fondazione di una grande azienda e un consistente patrimonio finanziario è lungo, anche se spesso si tratta di figure appartate e lontane dai riflettori della borsa. Come nel caso di Luxottica, le loro creature sono figlie dell'Italia del miracolo economico o dei decenni immediatamente seguenti, quando pil e produttività non erano inchiodati e il made in Italy era una categoria tutta da inventare. E, sempre come nel caso Del Vecchio, ad accomunarle è una governance famigliare che blinda il controllo nelle mani del fondatore e dei parenti più stretti, a partire da moglie e figli. "Anche se è difficile fare generalizzazioni sulla governance", come spiega a Milano Finanza Marina Brogi, professore di International Banking and Capital Markets alla Sapienza di Roma, "il fatto che nelle imprese ci siano delle forti presenze della famiglia può essere una caratteristica positiva".

Un suo studio del 2016, redatto assieme ad Alessandro Minichilli (Bocconi) e Andrea Calabrò (Ipag Business School, Nizza), ha analizzato i risultati delle aziende familiari italiane durante la grande crisi finanziaria del 2008 e ha evidenziato "una performance costantemente e significativamente migliore" dal punto di vista della redditività oltre alla maggior capacità di assorbire gli shock esogeni. Una tesi confermata due anni fa da uno studio di Credit Suisse stilato in seguito al primo periodo della pandemia: dal 2006 al 2020 le imprese di famiglia di tutto il mondo hanno visto una crescita nei ricavi superiore del 2% rispetto a quella delle aziende non familiari, così come una migliore performance per quanto riguarda i punteggi Esg. Non deve dunque stupire il fatto che molti degli imprenditori più ricchi d'Italia abbiano tenuto per sé o mantenuto all'interno della famiglia le redini delle rispettive aziende.

Si pensi a Giorgio Armani: 87 anni, un patrimonio personale di 6,8 miliardi di dollari secondo Forbes e un impero della moda su cui presiede strettamente. Lo scorso anno in un'intervista a Vogue America aveva aperto alla possibilità che il gruppo si unisse in joint venture con un'altra società a condizione che questa fosse italiana. "Non è così strettamente necessario che Armani continui come azienda indipendente", aveva detto, ma la fusione non si è ancora materializzata. Cinque anni fa Re Giorgio ha stilato i suoi piani di successione in modo da garantire la continuità del business: parte della holding Giorgio Armani Spa andrà alla Fondazione da lui costituita nel 2016, e il resto agli eredi, che potranno liquidare la quota cedendola alla Fondazione stessa. Tra questi lo storico braccio destro Leo dell'Orco, la sorella Roberta e i nipoti, Andrea Camerana e Silvana e Roberta Armani.

Ha recentemente avviato il processo per il passaggio di consegne aziendale Alberto Bombassei, l'81enne presidente emerito di Brembo dotato di un patrimonio personale stimato in 2,6 miliardi di dollari. Da dicembre dello scorso anno ha passato le deleghe esecutive al genero Matteo Tiraboschi, marito della figlia Cristina, mantenendo un ruolo di garanzia per assicurare la continuità dell'azienda ma con più libertà per dedicarsi anche alle passioni: lo abbiamo visto gareggiare poche settimane fa nella Mille Miglia 2022 con una Austin Healey 100 Le Mans del 1955. Anche dal punto di vista proprietario la successione è stata avviata: la holding FourB è in mano per il 51% a Cristina e per il 49% all'altro figlio Alberto, di professione architetto.

Mantiene saldo invece il controllo della holding di famiglia Silvio Berlusconi: l'ex Cavaliere detiene circa il 62,5% di Fininvest, che opera nei media con Mfe-MediaForEurope e nell'editoria con Mondadori. Il resto delle quote è diviso tra gli esponenti della seconda generazione: Marina ha l'8% ed è presidente di Fininvest e capo di Mondadori; Pier Silvio, con la stessa quota, è amministratore delegato di Mfe. Il restante 21,5% appartiene alla società H14, controllata in parti uguali dagli altri tre figli Barbara (amministratore delegato), Eleonora e Luigi. Ma l'impero da 7,1 miliardi di dollari di Berlusconi dovrà essere diviso in un numero ancora più grande di fette con la terza generazione: i nipoti dell'ex presidente del Consiglio sono addirittura 14.

In linea generale "avere un piano di successione è molto importante, ma non esiste una ricetta ideale", spiega Brogi. "Bisogna avere pianificato la successione in modo da valorizzare i talenti. Una caratteristica importante è aver costruito un gruppo di persone che condividano i valori del fondatore e idealmente ne abbiamo appreso le capacità imprenditoriali in modo che la ragione per cui l'azienda è stata capace di navigare bene nel mercato sia continuamente adattata al contesto".

Quando il passaggio alla seconda generazione funziona, dice ancora la docente, "spesso si osserva anche un aumento della diversificazione. Con persone diverse si sviluppano partecipazioni strategiche in altri settori e anche un lato non-profit". Lo si è visto di recente nel caso di Gustavo Denegri, presidente di Diasorin, 85 anni di età e una ricchezza da 5,4 miliardi. Negli ultimi anni ha lasciato molte delle attività al figlio Michele, che ha diversificato puntando su ristorazione e alberghiero. Ha lanciato la catena di ostelli Combo e rilevato, riqualificato e salvato dal fallimento lo storico ristorante Del Cambio di Torino. Un altro caso in cui l'apporto dei figli all'interno dell'azienda ha prodotto risultati positivi è stato quello di Technoprobe, sbarcata a febbraio sull'Egm con una capitalizzazione di 3,24 miliardi di euro. Il fondatore, l'87enne Giuseppe Crippa, ha creato la società (specializzata in prodotti per il collaudo dei semiconduttori) a 65 anni, da neo-pensionato dopo una vita in Stm. Il figlio Roberto ha assunto il ruolo operativo mentre Cristiano ha aperto la società al mercato asiatico. Il ceo è il nipote Stefano Felici, a capo anche di Technoprobe America con sede a San Jose, nella Silicon Valley.

La resilienza delle imprese familiari deriva, dice ancora Brogi, "dall'attaccamento nei confronti di un qualcosa che è stato tramandato e che in molti casi ha rappresentato la vita del fondatore. Questo fa sì che l'orizzonte temporale su cui si prendono le decisioni sia molto più lungo e che si facciano delle scelte più lungimiranti". Ed è forse per questo che alcuni grandi imprenditori "di famiglia" decidono esplicitamente di non aprire il capitale a soggetti esterni. Romano Minozzi, fondatore e presidente di Iris Ceramica (85 anni, patrimonio stimato di 1,6 miliardi di dollari), qualche anno fa disse: "A un pranzo di lavoro un americano mi disse: I have a dream, voglio comprare la sua azienda. Gli risposi: se lo tenga pure, il suo sogno. E grazie mille".

red

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