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Spigolature

- Modificato il 01/12/2017 10:47
lella6 N° messaggi: 1519 - Iscritto da: 01/2/2010

e di tutto un po'.

gocce di saggezza, briciole di buone letture,

poesia e musica indimenticabile e chi più ne ha più ne metta.

Buona giornata!





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1003 Commenti
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361 di 1003 - 01/12/2017 10:26
lella6 N° messaggi: 1519 - Iscritto da: 01/2/2010

AMAZON E IL SUO MONOPOLIO

Nel Trono di Spade un uomo che non è più tale conduce in modo irresistibile uno strano esercito: ogni nemico sconfitto ne diventa automaticamente parte, e tra i membri ed il nemico c’è una barriera insuperabile, … sono morti.
Gli ‘estranei’ della fortunata serie televisiva aspirano ogni energia che si trova nel più ampio, complesso e vario mondo dei vivi. In modo in qualche modo simile i nuovi modelli di distribuzione, dalla potenza irresistibile, fanno il vuoto del settore intermedio più rilevante per l’assetto ordinario delle nostre città e della stessa stratificazione sociale: il commercio.
Prima venne la grande distribuzione, e il modello più puro ed aggressivo di questa, Walmart, ma ora sulla sua strada si fa avanti un campione di purezza dall’abbacinante nitore: Amazon. Quando Walmart apre un nuovo punto di vendita nel territorio le reti di commercio di prossimità, anche le più forti ed organizzate, cedono, non riuscendo a stabilire con i fornitori la stessa relazione di potere schiacciante. La grande catena nata pochi anni fa da un solo punto vendita nello stato di Bill Clinton e divenuta una delle multinazionali più grandi al mondo, di cui abbiamo molte volte parlato (ad esempio qui), basa il suo potere nell’unione perfetta di un monopsonio (di fatto diventa, per la sua grandezza l’unico possibile acquirente per i suoi fornitori) e di un monopolio (con i suoi prezzi diventa l’unico a vendere su un territorio), che si fondano letteralmente l’uno sull’altro, e nel farlo devasta insieme la rete del piccolo commercio, desertificando le città, e il mercato del lavoro, verso il quale il monopsonio si estende. Se si ha la sfortuna di essere un lavoratore debole in un territorio nel quale c’è uno dei giganti di WalMart, si può scegliere tra essere senza lavoro ed esserne schiavo.
Qualcuno potrebbe dire, a questo punto, che è il capitalismo. In effetti lo è; il capitalismo è una forma di organizzazione sociale per sua natura predatoria. La famiglia Walton, che lo ha fondato nel 1962, ed ora è più ricca di 100 milioni di americani con i suoi oltre 80 miliardi di dollari di patrimonio, ha solo applicato il modello. Man mano che il lavoro si è indebolito, a partire dalla rivoluzione reaganiana, un modello che mobilita capacità rese sottoutilizzate dal crollo delle agenzie che proteggevano il lavoro dallo strapotere del capitale ed al contempo offre alle stesse popolazioni marginali riduzioni di costo (ottenute dallo sfruttamento selvaggio della debolezza di lavoratori e fornitori), si è fatto progressivo ed irresistibile. Più si allarga lo strato di lavoratori impoveriti, più una catena che offre salari di stretta sussistenza per vendere prodotti a basso prezzo (e qualità), strangolando i fornitori e costringendoli a loro volta ad abbassare i salari, è in vantaggio. La competizione come unico criterio legittimo, essenza dello spirito del capitalismo, alla fine porta alla concentrazione nelle stesse mani delle due forme interrelate di monopolio.

Ma i Walton, in fondo, hanno una catena di supermercati, sono ancora “old economy” (anche se catturano lo spirito della “new economy” e del “modello piattaforma”). Bezos, invece, non si vede. La grande idea è di costringere progressivamente tutti ad unirsi ai suoi ranghi. L’ex libreria on line ora vende quasi tutto, oltre cinquecento milioni di prodotti, dai generi alimentari (per ora non freschi) alle scarpe da ginnastica, l’elettronica da consumo, ovviamente i libri. Nel settore che ha occupato per prima la sua potenza è tale da costringere tutte le residue catene (come La Feltrinelli in Italia) a praticare gli identici sconti, ma con il sovrappeso di avere i negozi. Anzi da fare da espositori gratuiti alla catena on line.
La stessa cosa avviene per le firme di abbigliamento, il rapporto tra clienti che provano gli abiti e impegnano negozi e commesse e quelli che comprano non è probabilmente molto variato nel tempo, ma come per i libri quasi sempre gli acquisti sono però comodamente fatti da casa sulla piattaforma di Amazon e recapitati il giorno dopo. Lo scambio, per chi ancora ha la sua catena proprietaria di vendita (un modo “old style” per estendere i profitti, ora diventato per estendere le perdite), comporta l’obbligo di mettersi d’accordo con Bezos per vendere i propri prodotti. È, infatti, Amazon ad avere il cliente, dunque è lei a fare il prezzo.
Mentre le grandi catene di libri sono per lo più scomparse (ad esempio Borders ha chiuso nel 2011), e le grandi catene generaliste soffrono (Circuit City ha chiuso molti punti ed è stata costretta a venire a patti e la stessa Walmart ha chiuso 270 punti vendita) moltissimi altri settori, come negozi di dischi, elettronica, abbigliamento (pure di grandi marchi come Nike), stanno subendo l’impatto di un modello di vendita più economico, più comodo, più moderno.
Sembra che l’obiettivo sia diventato di “cercare di controllare le infrastrutture sottostanti della nostra economia”, come scrive Stacy Mitchell. L’anno scorso Amazon ha catturato la metà dei dollari spesi on line negli USA, e la maggioranza degli utenti ormai non passa neppure da Google, va direttamente alla pagina di Amazon.
Questa piattaforma dominante si sta estendendo direttamente in tutte le direzioni, produce da sé parte dei prodotti che vende, offre credito ai fornitori per renderli più legati e dipendenti, controlla il 44% della capacità di cloud computing mondiale (ovvero dai suoi server passano le nostre informazioni), sta estendendo sempre più la sua rete di magazzini automatizzati (con pochissimi dipendenti) per accorciare il tempo di consegna e guadagnare forza negoziale, tra poco consegnerà senza uomini (che, del resto, sono ora ipersfruttati da una rete di subfornitori a sua volta catturata dal monopsonio). Ormai dalle auto della Ford (tra breve anche in Italia), agli elettrodomestici della GE, quasi tutti devono vendere così.
Ma c’è qualcosa di peggio, Amazon sta usando il suo strabordante potere per clonare ogni prodotto di successo che passa sulla sua piattaforma. Non è solo scomparso il sogno di raggiungere direttamente i propri clienti sulla grande rete, che aveva spinto l’espansione del Web nei primi anni duemila, sta anche scomparendo per molti il vantaggio dell’innovazione. Chi ha un prodotto nuovo (o una nuova strategia di marketing prodotto) e la colloca, forzosamente, sulla piattaforma può essere certo di essere attentamente monitorato ed osservato. Dopo un poco, se funziona, scoprirà che come per magia uscirà un clone marchiato “Amazon Basic”, che si colloca sistematicamente meglio nei risultati di ricerca, che costa un poco meno. In genere accade dopo poche settimane.
Non c'è niente di illegale, ma semplicemente chi resiste può scoprire che di fatto non esiste più, i suoi prodotti sono scomparsi.
Come scrive Mitchell “il commercio on line non è più un mercato nel senso significativo della parola. Ora è un’arena controllata privativamente, dove una sola azienda definisce i termini per scambiare le merci con gli altri e decidere quali prodotti, quali nuovi autori, quali innovazioni, possono arrivare a trovare un pubblico”.
Gli investitori lo sanno, e stanno coprendo di denaro l’estraneo i cui eserciti irresistibili si estendono sul mondo. Quando Amazon ha dichiarato di voler comprare Whole Foods per 13 miliardi di dollari le azioni della multinazionale sono immediatamente lievitate in pratica della stessa cifra, gli investitori hanno coperto l’acquisto.
Le autorità di regolazione, invece, sembrano non accorgersi dell’esercito che avanza: per loro sono tutti mercati separati, e Amazon è in ognuno, ma sempre con una quota inferiore al 50%. Dunque, secondo le concezioni evirate dell’antitrust contemporanea (dopo decenni di predicazione della Scuola di Chicago, favorevole ai monopoli, purché ce ne sia più di uno), non c’è ancora alcun problema.
Ma il problema esiste, la piattaforma on line in effetti finisce per guidare e controllare, in parte perché dispone delle informazioni, tutti gli altri mercati e settori. Inoltre, man mano che estende la sua logistica (sulla quale gli unici concorrenti globali sono UPS e FedEx) finisce per essere l’unico modo per raggiungere tutti.
Non è solo Amazon, l’economia delle piattaforme sta eliminando sistematicamente tutte le strutture intermedie anche in quei settori dei servizi che, differenziandosi, hanno costituito la modernità assorbendo le risorse rese libere dalle economie di sussistenza “tributarie” precedenti. Come avevamo scritto parlando di Uber, l’idea è piuttosto semplice: attraverso la messa in contatto e la generalizzazione del modello dell’asta viene estratto tutto il valore che era prima in qualche modo catturato ed impiegato da quell’ampio strato intermedio di saperi esperti e dalle pratiche organizzate che hanno guidato la differenziazione progressiva della modernità a partire dal milleseicento ad oggi (in particolare accelerando nel XIX secolo). Questo strato intermedio, formato da quelle che chiamiamo “professioni”, svolgeva la funzione, in presenza di sistemi sempre più complessi da gestire di ridurre l’incertezza attraverso la specializzazione e creava quindi un diffuso dispositivo sociale di natura disciplinare. In effetti, guardandolo con il senno di poi, questo fenomeno è stato il principale fattore di stabilizzazione della società durante il lungo turbamento indotto dall’industrializzazione e dalla penetrazione dello “spirito del capitalismo”.
Si tratta, come sempre, di fenomeni ambigui ed ambivalenti, ma determinavano un importante sottoprodotto: la classe media.
Questo segmento “centrale” (in senso topologico, e a lungo anche in senso politico e culturale) era formato infatti dallo strato direttivo del mondo produttivo, da quello del mondo della distribuzione e dai professional, oltre che da parte del pubblico impiego e del mondo del lavoro dipendente in generale. E garantiva una certa stabilità e mobilità sociale, ancorando in sé la base stessa della democrazia per come nel novecento l’abbiamo conosciuta.
Senza una salda classe media la democrazia non è pensabile. Al massimo si può verificare una qualche forma di elitismo populista (che, infatti, è il modello in corso di affermazione ovunque).
Ma questa “rivoluzione” ha il potere immenso di destrutturare e sfilacciare l’intera nostra società, di desertificare le nostre città e strade, e di costringere alla dipendenza sempre più disperata dallo strapotere del capitale (ovvero dei pochissimi che lo possiedono, dagli “estranei”) tutto il mondo del lavoro. Riguarda letteralmente tutti.
E, tornando alla crescita di Amazon nel settore della distribuzione (e della produzione), rischia di provocare una spirale autorafforzante tra ulteriore crescita della disoccupazione (man mano che le catene logistiche, e persino i normali negozi di prossimità, cedono alla concorrenza), perdita del reddito disponibile (con potenziamento delle dinamiche deflattive), danno fiscale (in parte causato dall’elusione della piattaforma, in parte dalla perdita di lavoro), e incontrollabili effetti urbani.
Infatti una città nella quale i negozi scompaiono, nei quali i grandi magazzini emersi negli anni novanta e duemila restano abbandonati come vecchie cattedrali, in cui torreggiano solo megadepositi automatizzati e sfrecciano droidi (o furgoni automatizzati), e nella quale tutto diventa periferia, può ben essere il sogno di uno.Ma non il nostro.
ALESSANDRO VISALLI
MODERATO DucaConte LupoGufoCorvo (Utente disabilitato) N° messaggi: 2372 - Iscritto da: 23/10/2017
MODERATO Doctor Gematrico Armonica (Utente disabilitato) N° messaggi: 386 - Iscritto da: 22/10/2017
MODERATO EcLiTTiCaRoBerTa (Utente disabilitato) N° messaggi: 258 - Iscritto da: 01/12/2017
365 di 1003 - 05/12/2017 09:49
lella6 N° messaggi: 1519 - Iscritto da: 01/2/2010

AMAZON, OVVERO LA MODERNITA DELLO SCHIAVISMO


Massimo Demontis (Berlino)

Ha fatto marcia indietro Amazon almeno per quanto riguarda il controverso servizio di sicurezza usato per controllare, vessare e sorvegliare i lavoratori stagionali. Ora però il leader mondiale del commercio internet finisce nel mirino dell’antitrust tedesco. Lo ha reso noto da Bonn l’autorità garante della concorrenza e del mercato il Bundeskartellamt facendo sapere di aver avviato contro Amazon una verifica delle clausole contrattuali imposte agli operatori terzi che vendono i loro prodotti sulla piattaforma del colosso di Seattle.
L’accusa del Bundeskartellamt è pesante: Amazon avrebbe imposto ai venditori una clausola di “parità dei prezzi” secondo la quale essi non potrebbero vendere i prodotti offerti su Amazon a prezzi inferiori, e quindi più vantaggiosi per i consumatori, su altre piattaforme come eBay o anche sul sito internet del venditore.

Libera concorrenza impedita?

È quanto vuole verificare l’autorità antitrust tedesca perché la clausola di Amazon potrebbe impedire la libera fissazione dei prezzi da parte dei venditori e di conseguenza impedire o limitare la concorrenza tra le varie piattaforme di vendita online.

Il “sistema” secondo il Bundeskartellamt andrebbe in generale a svantaggio dei consumatori perché “in condizioni normali”, dice il suo presidente Andreas Mundt, i venditori avrebbero interesse a vendere i loro prodotti a prezzi diversi su diverse piattaforme.
La marcia indietro

Intanto come è noto Amazon avrebbe disdetto il contratto con la società di servizi di sicurezza H.E.S.S (Hensel European Security Services) di Kassel dopoché il primo canale tedesco ARD aveva mostrato dipendenti della società sorvegliare gli alloggi dei lavoratori stagionali – pare avessero addirittura il permesso di entrare in qualsiasi momento – e vessare la troupe televisiva e i lavoratori stranieri facendo bella mostra del loro abbigliamento Thor Steinar, una marca molto nota e usata in ambienti di estrema destra.

Il servizio televisivo aveva anche mostrato collegamenti tra dipendenti del servizio di sicurezza e ambienti hooligan e di estrema destra, collegamenti smentiti dalla H.E.S.S.

Il reportage

Il 13 febbraio un reportage trasmesso dall’ARD sulle condizioni di lavoro degli stagionali nel centro logistico Amazon di Bad Hersfeld aveva scuscitato scandalo sia nell’opinione pubblica sia nel mondo politico e sindacale.

Amazon il più grande sito commerciale online del mondo macina miliardi sulle spalle dei lavoratori stagionali fatti arrivare in Germania da tutta Europa per il business natalizio, in particolare dai paesi in cui la disoccupazione giovanile è più alta e dove la disperazione ha raggiunto livelli di guardia.

Alloggiati in modo indecoroso in spazi angusti, come ha mostrato il reportage al quale è stato dato non a caso il titolo di „Ausgeliefert“ che significa essere in balia di qualcosa/qualcuno, i sette “fortunati” che condividono l’alloggio vivono senza un minimo di privacy sotto l’occhio vigile e onnipresente dei mastini del servizio di sicurezza. Presenti persino quando gli stagionali mangiano e forti del „potere“ di controllare i loro zaini, le loro borse e i loro effetti personali. Insomma, un clima di paura come hanno dichiarato alcuni di essi ai giornalisti dell’ARD.

Sono freddi questi „alloggi“ di fortuna e accolgono lavoratori e lavoratrici provenienti da Spagna, Ungheria, Romania, Polonia corsi qui in Germania per un salario orario di 9 euro lordi che ad Amazon garantisce primati in Borsa e a loro ancora una vita precaria, la stessa dalla quale sono fuggiti nei loro paesi di origine.

Nel periodo natalizio Amazon fa ricorso a 5000 stagionali per coprire l’impennata del business che fa tintinnare le casse dell’azienda. Tre mesi di lavoro, alloggi angusti, privacy neanche a parlarne, un solo bus per turno di lavoro, sempre strapieno, per raggiungere il centro logistico, se fai tardi ti viene ridotta la paga, ritmi di lavoro serrati. Scaduti i tre mesi ricevi il ben servito. Che potrebbe arrivare prima se non dimostri di essere un lavoratore modello, uno di quelli che rigano dritto.
Si muove la politica e il sindacato

Non è la prima volta che vengono alla luce notizie sulle condizioni di lavoro da Amazon. Alcune informazioni erano già filtrate nel 2011 quando si venne a sapere che nei centri di Werne e Rheinberg nel Nordreno-Westfalia Amazon avrebbe utilizzato centinaia di disoccupati in prova per alcune settimane senza paga nonostante conoscessero già le procedure aziendali o quando un giornale locale della Pennsylvania aveva intervistato i lavoratori di un centro logistico che denunciavano le temperature insopportabili causa di svenimenti e malesseri tra i lavoratori.

Il ministro del Lavoro Ursula von der Leyen ha chiesto ad Amazon chiarimenti e ha „minacciato“ le agenzie interinali che lavorano con l’azienda americana di ritiro della licenza.

Il sindacato Ver.di fa sapere di essere in trattativa per salari più alti per i dipendenti a tempo indeterminato e chiede al gigante internet di riconoscere il contratto di categoria del commercio al minuto.

E domani?

Ma quanto durerà in realtà lo shock? Poco. Forse qualche giorno. In primis quello fariseo di certa politica.

Lo shock, se di shock vogliamo parlare, sarà breve perché la ricerca del prodotto a buon prezzo non conosce soste e non ha morale. La politica e i sindacati non hanno né la forza né l’interesse per opporsi allo scandalo. Prima di tutto viene il posto di lavoro poi – molto in fondo – la dignità e la salute. D’altra parte, ogni tanto è bene ricordarlo, lo scandalo che adesso porta il nome di Amazon potrebbe avere il nome di decine di altre aziende note e meno note.

In fondo i bassi salari, quelli da fame e da sfruttamento, le condizioni di lavoro brutali e vergognose, le condizioni di salute dei lavoratori, i loro diritti, sono solo un optional, episodi marginali da immolare sull’altare della flessibilità e della globalizzazione senza frontiere.

Importante è che domani arrivi a casa puntuale l’ultimo modello di smartphone o di jeans vintage o di sneakers. A buon prezzo. Non importa dove, come e a quali condizioni è stato prodotto.
366 di 1003 - 05/12/2017 11:29
lella6 N° messaggi: 1519 - Iscritto da: 01/2/2010
LETTERA AD UN FIGLIO

di Rudyard Kipling


Se puoi vedere distrutto il lavoro di tutta la tua vita
e senza dire una parola ricominciare,
se puoi perdere i guadagni di cento partite
senza un gesto e senza un sospiro di rammarico,
se puoi essere un amante perfetto
senza che l'amore ti renda pazzo,
se puoi essere forte senza cessare di essere tenero
e sentendoti odiato non odiare, pure lottando e difendendoti.

Se tu sai meditare, osservare, conoscere,
senza essere uno scettico o un demolitore,
sognare senza che il sogno diventi il tuo padrone,
pensare senza essere soltanto un pensatore,
se puoi essere sempre coraggioso e mai imprudente,
se tu sai essere buono e saggio
senza diventare ne moralista, ne pedante.

Se puoi incontrare il Trionfo e la Disfatta
e ricevere i due mentitori con fronte eguale,
se puoi conservare il tuo coraggio e il tuo sangue freddo
quando tutti lo perdono.

Allora i Re, gli Dei, la Fortuna e la Vittoria
saranno per sempre tuoi sommessi schiavi
e, ciò che vale meglio dei Re e della Gloria,
Tu sarai un uomo.
367 di 1003 - 07/12/2017 18:53
lella6 N° messaggi: 1519 - Iscritto da: 01/2/2010
IL PARADOSSO DI AMAZON
I TEMPI STANNO CAMBIANDO
di Riccardo Franco Levi

L’azienda fondata da Jeff Bezos è diventata un vero e proprio mercato elettronico per le merci di ogni altro produttore, arrivando a porsi come un virtuale ed obbligato collo di bottiglia per il loro sviluppo ed acquisendo, così, un enorme volume di informazioni e di dati sulle loro attività


Dovunque, in Italia, in Europa, nel mondo, si discute di come controllare (e tassare) i giganti dell’era di internet come Apple, Google, Facebook, Amazon.L’impresa attorno alla quale l’assedio si fa più stretto è Amazon.Sono ormai passati vent’anni da quando Jeff Bezos lanciò la sua azienda nel campo delle vendite di libri su internet. Da allora Amazon ha esteso il proprio raggio di azione al punto di vendere quasi ogni cosa a chiunque, operando come un vero e proprio mercato elettronico per le merci di ogni altro produttore, arrivando a porsi come un virtuale ed obbligato collo di bottiglia per il loro sviluppo ed acquisendo, così, un enorme volume di informazioni e di dati sulle loro attività.
Nel contempo, Amazon ha sviluppato anche un imponente sistema logistico per il deposito, il trasporto e la distribuzione delle merci e un potentissimo servizio di archiviazione dati in remoto (sulla «nuvola», «the cloud») che conta tra i propri utenti persino al Cia. È entrata direttamente con dei propri «studios» nella produzione di contenuti per il mondo di internet, della televisione e del cinema. E, da ultimo, ha allargato la propria attività al campo dei veri e propri supermercati con l’acquisto della catena americana di negozi alimentari Whole Foods. Per quanto anche negli Stati Uniti crescano le voci di coloro che in nome della tutela della libera concorrenza chiedono di controllare e limitare l’azione e il potere, o strapotere, di Amazon e, con essa, degli altri giganti dell’era di internet, la strada compiuta in questa direzione è sino ad ora abbastanza modesta. Per quanto riguarda in particolare Amazon, pesa, e tanto, la considerazione di quanto i consumatori abbiano goduto e approfittino della quasi insuperabile convenienza e della estrema comodità degli acquisti permessi dall’azienda. E se si vuole una conferma di quanto l’America tutta intera sia interessata allo sviluppo di quello che è diventato il «negozio» per antonomasia (così, The Store, ha intitolato un proprio recentissimo ed inquietante romanzo lo scrittore James Patterson), basta scorrere l’elenco delle 238 città che si sono candidate ad accogliere il suo secondo, gigantesco quartier generale con i suoi 5 miliardi di dollari di investimenti e i suoi 50mila nuovi, diretti posti di lavoro.
Un altro, più impalpabile ma non per questo meno decisivo fattore nel proteggere Amazon, e con essa le varie Google, Facebook, Apple, dai possibili interventi delle autorità antitrust è stata, sino ad ora, l’assenza di una adeguata teoria della concorrenza per l’era di internet.Questa lacuna appare ora colmata dalla pubblicazione sullo «Yale Law Journal» di Amazon’s Antitrust Paradox(ogni traduzione è superflua): un articolo di Lina Khan, direttrice di Legal Policy all’Open Market Institute di Washington e «visiting fellow» della Yale Law School, subito giudicato come un contributo capace di mutare in profondità ed influenzare per un lungo tempo a venire teoria e politica della concorrenza, al pari di quanto avvenne quasi quarant’anni con la pubblicazione di The Antitrust Paradox di Robert Bork (chi volesse, può ancora trovare e acquistare il libro, guarda caso, su Amazon).
Fino a tutti gli anni Sessanta, la teoria della concorrenza era basata sull’idea, in sé abbastanza semplice, che un mercato nel quale operassero pochi o pochissimi grandissimi operatori fosse di per sé meno competitivo di uno popolato da un gran numero di imprese. Di qui, una politica antitrust che tendeva a evitare eccessive concentrazioni, contrastando tanto le integrazioni orizzontali, cioè tra concorrenti dello stesso settore, quanto quelle verticali, cioè tra imprese parte di una medesima catena di produzione o di distribuzione.Con Robert Bork, e con la Scuola di Chicago, tutto cambiò: in ossequio alla fiducia nella razionalità dei mercati, il solo criterio guida diventava «il benessere del consumatore», generalmente interpretato e misurato da tribunali e autorità antitrust a partire dagli effetti sui prezzi. Se la spia di una inaccettabile posizione dominante era costituito dalla capacità di imporre prezzi innaturalmente alti, prezzi bassi, quando non addirittura bassissimi, escludevano di per sé qualsiasi potere di controllo sui mercati. Lina Khan rovescia questa impostazione. Recuperando e adattando all’economia del XXI secolo e di internet l’antica ottica attenta alla struttura dei mercati, la studiosa della Yale University riconosce e denuncia i rischi, sottovalutati quando non addirittura negati dalla teoria di Bork, derivanti da politiche di prezzo «predatorie», cioè aggressive sino al punto da praticare prezzi inferiori al costo, e dall’integrazione tra e dalla progressiva espansione in attività e settori diversi. Così facendo, riesce a cogliere gli elementi anticompetitivi della struttura e delle strategie di Amazon e, coerentemente, a suggerire rimedi.
Gli approcci possibili, secondo Liza Khan, sono due. Si può scegliere la strada che punti ad assicurare la permanenza di mercati strutturalmente aperti alla concorrenza, vietando pericolose concentrazioni verticali o orizzontali e, se necessario, addirittura imponendo di «smontarle». Nel caso di Amazon questo potrebbe, ad esempio, voler dire separare l’attività di vendite in proprio da quelle di vendite per conto di produttori terzi o di trasferire ad un’impresa indipendente le attività di conservazione dati sulla «nuvola». In alternativa, si può accettare che Amazon (e con essa le varie Google o Facebook), considerate come le infrastrutture dell’era di internet, costituiscano monopoli o oligopoli naturali, e si decida, di conseguenza, di regolarli come tali. Si potrebbe, ad esempio, imporre ad Amazon l’obbligo di non privilegiare i propri prodotti, di non discriminare tra gli altri produttori, di assicurare un libero ed equo accesso alle proprie piattaforme. Come avrebbe detto Bob Dylan, The Times They Are A-Changin’:i tempi stanno cambiando.
368 di 1003 - 08/12/2017 09:38
luomo_nero N° messaggi: 458 - Iscritto da: 15/3/2016
è la logica della globalizzazione signora Lella è la logica della multinazionale che porta lavoro a tutti... hanno sempre pagato i più deboli, e continueranno a farlo ahimè è sempre più una guerra tra poveri finchè i poveri lo consentiranno
MODERATO DucaConte LupoGufoCorvo (Utente disabilitato) N° messaggi: 2372 - Iscritto da: 23/10/2017
378 di 1003 - 11/12/2017 12:21
lella6 N° messaggi: 1519 - Iscritto da: 01/2/2010
“Art. 18? Totem ideologico”. La superficialità di Renzi
giacomo-galazzo 6 dicembre 2017

La settimana scorsa i media hanno diffuso una dichiarazione di Matteo Renzi nella quale l’articolo 18 è stato definito un “totem ideologico“. Proprio perchè la scelta dei vocaboli è o dovrebbe essere importante per un leader politico, questa affermazione merita un approfondimento o (se mi passate il termine) un’ analisi del testo.

Iniziamo dalla scelta del termine “totem”. Cosa intendiamo con questo vocabolo nel linguaggio corrente? Se facciamo la cosa più facile del mondo e cioè scriviamo “totem” su un motore di ricerca, veniamo immediatamente reindirizzati a Wikipedia che ci dice questo: “Un totem – in antropologia – è un’entità naturale o soprannaturale che ha un significato simbolico particolare per una persona, un clan o una tribù, e al quale ci si sente legati per tutta la vita”. Tralasciamo pure i clan e le tribù: non c’è dubbio che se utilizzato in una discussione politica questo termine evochi un elemento di identificazione collettiva, qualcosa cui una comunità o un gruppo riconosce un valore unificante o identitario, in una parola un simbolo.

Ma attenzione. Di cosa si sta parlando? L’art. 18 di cui stiamo discorrendo fa parte di una legge molto importante: lo Statuto dei lavoratori. E’ quella legge che nel 1970 fu intitolata “Norme sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori” e che si apre proprio con una sezione intitolata “Della dignità e della libertà e del lavoratore“. Non so cosa ne pensate voi, ma trovo che l’idea che la legge debba occuparsi di riequilibrare la naturale posizione di svantaggio del prestatore di lavoro nei confronti del datore realizza nell’ordinamento un fondamentale omaggio al principio di eguaglianza. Questo, inteso nell’accezione formulata nel secondo comma dell’art. 3 della Costituzione, richiama non solo l’eguaglianza davanti alla legge ma anche e precisamente l’impegno della Repubblica ad agire per sostenere le situazioni di debolezza e di svantaggio, riferendosi peraltro espressamente ai “lavoratori“. Ebbene, che la nostra parte politica si riconosca in un approdo come quello, che lo senta come un simbolo del suo impegno, che lo percepisca come tratto fondamentale della sua identità non mi sembra affatto una cosa negativa. L’adesione ideale a principi come questi mi sembra, al contrario, la ragion d’essere stessa dei progressisti.

Ma passiamo all’aggettivo “ideologico”. Qui facciamo un passaggio in più e ricorriamo al vocabolario online della Treccani, che per quanto riguarda l’uso del termine “ideologia” nel linguaggio corrente ci propone due accezioni. Matteo Renzi ha usato certamente la seconda: “In senso spregiativo, soprattutto nella polemica politica, complesso di idee astratte, senza riscontro nella realtà, o mistificatorie e propagandistiche, cui viene opposta una visione obiettiva e pragmatica della realtà politica, economica e sociale“. La prima accezione, invece, è diversa ed è descritta come segue: “Il complesso dei presupposti teorici e dei fini ideali (o comunque delle finalità che costituiscono il programma) di un partito, di un movimento politico, sociale, religioso“. Proviamo dunque a leggerlo questo testo “ideologico“, cerchiamo di verificare a quale delle due accezioni della locuzione “ideologia” l’art. 18 merita di essere riferito. Per parlare dell’attualità, proviamo a scorrere l’esordio della proposta di legge che alcuni deputati della sinistra hanno presentato nei giorni scorsi (a prima firma di Francesco Laforgia) e che mirava per l’appunto a reintrodurre alcune tutele per il tramite di una nuova formulazione dell’art. 18:

“Il giudice ordina al datore di lavoro, imprenditore o non imprenditore, la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro con la sentenza con la quale Il giudice ordina al datore di lavoro, imprenditore o non imprenditore, la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro con la sentenza con la quale:

a) dichiara la nullità del licenziamento perché discriminatorio ai sensi dell’articolo 3 della legge 11 maggio 1990, n. 108, ovvero intimato per ritorsione o rappresaglia, ovvero in concomitanza con il matrimonio ai sensi dell’articolo 35 del codice delle pari opportunità tra uomo e donna, di cui al decreto legislativo 11 aprile 2006, n. 198, o in violazione dei divieti di licenziamento di cui all’articolo 54, commi 1, 6, 7 e 9, del testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità, di cui al decreto legislativo 26 marzo 2001, n. 151, o perché riconducibile ad altri casi di nullità previsti dalla legge o determinato da un motivo illecito determinante ai sensi dell’articolo 1345 del codice civile;

b) annulla il licenziamento in quanto accerta che non ricorrono gli estremi del giustificato motivo soggettivo o della giusta causa addotti dal datore di lavoro per insussistenza del fatto contestato, ovvero perché esso non è stato commesso dal lavoratore o comunque non è a lui imputabile, ovvero perché non costituisce infrazione rilevante sul piano disciplinare, ovvero perché rientra tra le condotte punibili con una sanzione conservativa sulla base delle disposizioni dell’articolo 2106 del codice civile ovvero sulla base dei contratti collettivi di lavoro o dei codici disciplinari applicabili; dichiara inefficace il licenziamento perché intimato in forma orale, o per mancanza della motivazione di cui all’articolo 2, comma 2, della legge 15 luglio 1966, n. 604, o perché la condotta è stata contestata al lavoratore in modo generico o non immediato, o per violazione della procedura di cui all’articolo 7 della presente legge””.

Traduzione, in estrema sintesi: devono esistere casi nei quali a fronte di un licenziamento variamente definito dalla legge come ingiusto lo Stato garantisce al lavoratore il diritto di tornare a fare il suo mestiere. E’ questo un “complesso di idee astratte, senza riscontro nella realtà, o mistificatorie e propagandistiche”? Non credo. Penso che al contrario si tratti di una opportuna traduzione legislativa di “fini ideali (o comunque delle finalità che costituiscono il programma) di un partito, di un movimento politico“. Il fine in questione, secondo me, è quello di affermare che il rapporto di lavoro, proprio perchè legato intimamente alla dignità della persona e alla sua concreta possibilità di percorrere con le sue forze un percorso di vita, non può essere interamente monetizzabile e che ci vuole, al fondo, un presidio di difesa e tutela che sia il più possibile effettivo. Questo e non altro è la reintegrazione: la restituzione della posizione che viene ingiustamente sottratta. La mia opinione è che un’ idea come questa (o ideologia, se preferite: come abbiamo visto non è necessariamente una brutta parola) la sinistra la deve rivendicare a voce alta.

Concludendo, fa impressione che chi come Matteo Renzi si candida a essere la guida dei progressisti italiani parli con questa superifcialità dello Statuto dei lavoratori e palesemente senza considerare le complessità dei termini che utilizza. In queste righe ho cercato di dimostrare, con rispetto delle opinioni di tutti, un pensiero che sento fortemente mio: in norme come l’art. 18 non c’è solo la regolazione di interessi contrattuali, ma una precisa idea della persona e della società. C’è un orientamento, c’è una direzione di marcia. Ci sono dei valori, forti e unificanti. E visto che si parla da più parti di ricostruire il centrosinistra, non serve un’ analisi complessa per notare che senza quei valori la parola “centrosinistra” risulta vuota, priva di spessore e di contenuti. E’ anche per questo che sono felice di avere partecipato a un percorso, quello che ha portato all’Assemblea unitaria di domenica scorsa a Roma, che molti ci accusano di avere fondato sul risentimento e sul rancore. Se avessero frequentato una sola delle 159 assemblee svoltesi nelle ultime due settimane, si sarebbero accorti che al contrario stiamo proprio cercando di riorganizzare una partecipazione democratica intorno a principi e valori come quelli di cui ho parlato in queste righe.

379 di 1003 - 11/12/2017 12:30
luomo_nero N° messaggi: 458 - Iscritto da: 15/3/2016


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MODERATO DucaConte LupoGufoCorvo (Utente disabilitato) N° messaggi: 2372 - Iscritto da: 23/10/2017
1003 Commenti
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