ROMA (MF-NW)--Meglio tardi che mai. Riproponendosi ora l'esigenza di privatizzazioni per circa 20 miliardi, a distanza di 30 anni, non solo in alcuni scritti, si manifesta un rimpianto per la mancata condivisione, da parte del governo dell'epoca, del progetto studiato dal grande giurista Giuseppe Guarino per la riorganizzazione della presenza pubblica in economia con la costituzione di due holding sotto cui collocare le imprese pubbliche aprendole alla partecipazione pure dei privati.

In sostanza, scrive MF-Milano Finanza, si trattava di una parziale privatizzazione che manteneva fermo il controllo strategico pubblico in rami fondamentali dell'economia. La coalizione di diffusi interessi di parte, interni e internazionali, condusse all'affossamento del piano. Alcuni dei tardi nostalgici dovrebbero fare atto di contrizione. Non è sopportabile che in diversi campi debbano passare decenni prima di riconoscere i meriti e, in alcuni casi, di auto-smentirsi senza i doverosi mea culpa. Un apporto fondamentale alla non condivisione del progetto-holding venne da Bruxelles con le pressioni per la chiusura dell'Iri e con la necessità di affrontare, anche con misure di urgenza, il problema del debito al fine di preparare l'ammissione dell'Italia alla prima fase dell'Unione Economica e Monetaria. Va osservato tuttavia che a quest'ultimo obiettivo non era antitetico il piano-Guarino. Si preferì invece la dismissione «a rubinetto», in assenza di norme regolatrici fondamentali che vennero solo successivamente con il Testo Unico della Finanza del 1998. Fu la fase dei diversi incontri e mercanteggiamenti, delle riunioni sul famoso panfilo della regina che a un noto banchiere suggerì, unendo inglese e italiano, di qualificare una schiera di finanzieri o di aspiranti tali come i «yachtisti», dai quali sosteneva che bisognava stare alla larga.

Mediobanca, con Enrico Cuccia ancora nel pieno del suo vigore, si offrì per una consulenza sulle privatizzazioni, ma la sua proposta non fu accolta. Si arrivò al nocciolino duro con la possibilità per la Fiat di governare Telecom con lo 0,6%. Si continuò, andando avanti negli anni, con la pretesa di una parte del management di quest'ultima impresa di stabilire quel che avrebbero dovuto decidere azionisti come il Tesoro o la Banca d'Italia. Oggi, come accennato, si ripresenta la necessità di privatizzare. Ciò che ai tempi fu, come motore delle dismissioni, l'Europa, ora assume le vesti del fare tempestivamente cassa.

Non sono pochi 20 miliardi da raccogliere. Ma soprattutto occorre un progetto specifico che indichi le finalità, coerenti con la peraltro non ancora esplicitata visione della presenza pubblica in economia, che non possono essere solo quelle di reperire risorse per la manovra di bilancio con la quale si guardi, magari, solo all'anno prossimo. Bisognerebbe che fosse precisato con quali modalità e tecniche e in quali tempi si ipotizzi di avviare le privatizzazioni e quale sia la quota che debba rimanere saldamente nelle mani pubbliche. Non affatto da trascurare il rapporto in cui le privatizzazioni si pongono con la disciplina del golden power. Sarebbe singolare se questa dovesse essere attivata dopo che la presenza pubblica fosse scesa in una società tanto da consentire l'ingresso con modalità rilevanti, per esempio, di imprese estere.

E ciò in un periodo particolarmente difficile per gli impatti delle due guerre - in Ucraina e in Israele - per il quadro geopolitico in generale, per l'aumento dei prezzi dell'energia, per la questione-inflazione, per i temi delle migrazioni. Occorrerebbero una seduta parlamentare ad hoc sulle dismissioni e la costituzione di un comitato di esperti per analizzare modi e tempi, partendo dalla valutazione della coerenza dell'impostazione generale con gli specifici progetti che si stanno portando avanti per diverse imprese pubbliche di rilievo nazionale o per quelle in cui si ipotizza un'entrata dello Stato (si pensi a Tim). Insomma, le privatizzazioni non sono semplici ed esaustive poste di bilancio.

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1708:22 ott 2023

 

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