Nomine: noi siamo Giorgia (Mi.Fi.)
09 Gennaio 2023 - 09:14AM
MF Dow Jones (Italiano)
Da oltre un decennio la destra non toccava palla nella partita
delle nomine. Ora però ha l'occasione per rifarsi, e con gli
interessi. Davanti a Giorgia Meloni e al suo governo c'è una
prateria. Perché non soltanto con l'approvazione dei bilanci 2022
scadono i consigli di amministrazione di tutti i più importanti
gruppi controllati dal Tesoro, ma c'è anche da sistemare il ponte
di comando di enti e apparati pubblici fondamentali per il
funzionamento dello Stato, per un totale di quasi un migliaio di
poltrone.
I vertici delle grandi holding pubbliche, scrive MF-Milano
Finanza, sono ancora oggi gli stessi nominati dal governo di Matteo
Renzi nel 2014. E torna alla mente quella frase infelice dell'ex
ministro della Difesa del primo governo di Silvio Berlusconi,
l'avvocato Cesare Previti, che prima delle elezioni politiche del
1996 minacciò: "Non faremo prigionieri".
Stavolta però non ce ne sarà bisogno. Molti hanno imparato e si
sono già riposizionati, grazie anche ai risultati. Così, ad
esempio, per Stefano Donnarumma, che la sindaca grillina di Roma
Virginia Raggi aveva collocato al timone della multiutility della
capitale quotata in borsa, l'Acea, e nel 2020 il governo
dell'attuale leader del M5s Giuseppe Conte aveva promosso alla
guida di Terna, secondo radio mercato si profila un importante
avanzamento di carriera. Ossia il trasferimento sulla poltrona di
amministratore delegato dell'Enel, ora occupata da Francesco
Starace.
Sarebbe invece al sicuro quella, all'Eni, di Claudio Descalzi.
Conquistando il suo quarto mandato consecutivo, sarebbe il più
longevo capo azienda dell'Eni da settant'anni. Cioè da quando, era
il 1953, esiste l'ente petrolifero di Stato. Davanti perfino a
Enrico Mattei, che fu presidente dell'Eni per nove anni, dopo
essere però stato in precedenza alla guida dell'Agip per otto anni.
Per il primato assoluto, a Descalzi mancherebbero ancora un paio di
giri. Mai dire mai.
Boccone forse ancora più appetitoso da punto di vista politico è
quello di Poste italiane. L'azienda più grande d'Italia per numero
di dipendenti: sono 120 mila. L'entourage di Giorgia Meloni ne deve
conservare ottimi ricordi. Non fosse altro perché dal 2002 al 2014
amministratore delegato è stato Massimo Sarmi, ex manager di
Telecom Italia considerato molto vicino all'ex leader di Alleanza
nazionale, Gianfranco Fini. E anche se non è più quel tempo, le
Poste fanno sempre gola. Oggi a capo c'è Matteo Del Fante, nominato
dal governo di Paolo Gentiloni ma assai stimato pure dal suo
predecessore Matteo Renzi, che l'aveva voluto a Terna. Chi spera
nella continuità non esclude che al suo posto il governo di destra
possa promuovere il condirettore generale Giuseppe Lasco.
Quanto a Leonardo, l'epoca di Alessandro Profumo è chiaramente
al tramonto. Impensabile che il ministro della Difesa Guido
Crosetto, fondatore di Fratelli d'Italia con Giorgia Meloni e
l'attuale presidente del Senato Ignazio La Russa, non faccia valere
la propria influenza. Tanto più conoscendo bene il mondo
dell'industria militare pubblica italiana. Anche dall'interno. Già
presidente dell'associazione confindustriale delle aziende della
difesa, fino all'ingresso nel governo risultava presidente di
Orizzonte Sistemi Navali, una società controllata al 50%
rispettivamente da Leonardo e Fincantieri. Per la poltrona di
Profumo si parla con insistenza di Lorenzo Mariani, che di Leonardo
è ora chief commercial officier. Vedremo.
Poi c'è la Rai, e tutti gli indizi portano a Giampaolo Rossi,
figura organica a Fratelli d'Italia. È il direttore scientifico
della fondazione Alleanza nazionale. E che il nuovo governo metta
le mani sulla tivù di Stato è matematico. Com' è sempre accaduto,
governasse la destra o la sinistra.
Ma non è finita qui. Anche il vertice dell'Istituto nazionale
della previdenza dovrà cambiare. E non soltanto perché Pasquale
Tridico, nominato nel 2019 dal Movimento 5 stelle, sia in scadenza.
L'Inps gestisce lo stato sociale, arma formidabile per il consenso
politico. Gira il nome di Alberto Brambilla, vicino alla Lega, ex
senatore nonché sottosegretario nel secondo governo Berlusconi. È
presidente del centro studi Itinerari previdenziali, nel cui
comitato scientifico figurano esperti di ogni orientamento
politico, da Paolo Onofri a Tiziano Treu, da Natale Forlani a Enzo
Moavero Milanesi.
Con loro c'è Gian Carlo Blangiardo, nominato presidente
dell'Istat dal governo gialloverde di Giuseppe Conte nel 2019,
anch'egli in scadenza. Potrebbe essere rinnovato, ma anche questa è
una scelta molto delicata. L'Istat è la bussola della politica
economica di ogni governo.
Quindi il nutrito capitolo giustizia. C'è da nominare il nuovo
Consiglio superiore della magistratura. E la destra si presenta
decisamente bellicosa, come dimostra la scelta di mettere al
ministero della Giustizia l'ex magistrato Carlo Nordio. L'identikit
del possibile vicepresidente, in sostituzione di David Ermini,
potrebbe assomigliare a quello di Alfredo Mantovano. Che è però
impegnato a palazzo Chigi come sottosegretario alla presidenza. La
morte improvvisa di Franco Frattini ha liberato anche la casella
cruciale della presidenza del Consiglio di Stato. La nomina è
formalmente del governo anche se la designazione, in ossequio al
principio di autonomia della magistratura, spetta allo stesso
Consiglio di Stato. Che normalmente si basa sull'anzianità. Secondo
tale principio, il primo della lista sarebbe l'attuale presidente
aggiunto Luigi Maruotti. Aspira però alla nomina rivendicando pari
anzianità anche Carmine Volpe, in passato titolare di molti
incarichi governativi anche con i governi di centrodestra. Fra il
2008 e il 2011 è stato capo dell'ufficio legislativo del ministro
degli Affari regionali Raffaele Fitto, ora di nuovo al governo con
il compito di vigilare sul Pnrr.
La stagione delle nomine avrà uno strascico autunnale. Forse il
più importante. In autunno scade anche il governatore della Banca
d'Italia Ignazio Visco, che in base alle norme non potrà fare un
terzo mandato.
red
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