La partita Generali dimostra una volta di più come le liste presentate dai consigli di amministrazione siano diventate uno strumento di governance sempre più diffuso nella finanza italiana, anche se tra gli addetti ai lavori le valutazioni sono controverse. Se da un lato le candidature del board vengono riconosciute come uno strumento indispensabile in società ad azionariato diffuso quali sono oggi banche e assicurazioni, dall'altro lato molti vedono il rischio di un'autoreferenzialità dannosa per il mercato. Quel meccanismo in ogni caso Stefano Micossi lo conosce molto bene. Non solo infatti il tema è sotto i radar dell'Assonime (di cui l'economista bolognese è direttore generale), ma lo scorso anno lo stesso Micossi come amministratore di Unicredit ha preso parte attiva alla redazione di una delle più delicate liste del cda.

Domanda. Professor Micossi, come è cambiata la governance delle grandi società italiane negli ultimi dieci anni?

Risposta. Partiamo dai board: il monitoraggio che Assonime realizza ogni anno sui sistemi di corporate governance delle quotate italiane emerge che i cda stanno riducendo le dimensioni spesso pletoriche che li caratterizzavano nel passato; parallelamente però è cresciuto il numero di riunioni (+20% negli ultimi 10 anni) e la loro durata (+25%). Abbiamo insomma cda più piccoli e più impegnati.

D. Cosa si può dire sugli assetti di controllo?

R. Mi sembra che oggi il mercato italiano sia caratterizzato da due tendenze opposte. Una parte del sistema, composta principalmente dai gruppi finanziari e dalle ex privatizzate, si è mossa verso il modello della public company. Le imprese manifatturiere e, più in generale, le aziende a proprietà famigliare hanno invece preferito rafforzare i propri assetti di controllo. Per perseguire questo obiettivo al posto dei patti sindacali e delle piramidi societarie è stato usato principalmente il voto multiplo, che oggi rappresenta un valido sostituto. A volte mi interrogo se sia una strategia valida per tutte le situazioni: in una fase di debolezza infatti le limitazioni alla contendibilità possono rappresentare un problema per l'azienda e impedire quei cambiamenti che ne potrebbero rivitalizzare la strategia. È giusto in ogni caso lasciare la scelta alle società.

D. Torniamo alle public company. Insieme a questo assetto proprietario si sta gradualmente imponendo la lista del cda. Che bilancio se ne può fare?

R. Si tratta di una prassi diffusa nei principali paesi, non solo anglosassoni, che responsabilizza il cda uscente e che consente di valorizzare i risultati dell'autovalutazione e dell'identificazione dei criteri di ottimale composizione. Un meccanismo insomma che permette di rivolgere forte attenzione alla selezione dei professionisti e alle richieste degli investitori internazionali, con importanti riflessi sulla qualità dei candidati. C'è però un potenziale effetto collaterale: l'irrigidimento degli amministratori che possono essere spinti ad auto-perpetrarsi di mandato in mandato.

D. Lo strumento rischia insomma di trasformarsi in un incentivo alla autoreferenzialità?

R. Negli Usa le cronache finanziarie hanno riportato diversi casi di cda controllati dal ceo. Dobbiamo stare attenti ma più la procedura è aperta, meglio il meccanismo funziona soprattutto nelle grandi società finanziarie. In generale osserviamo che anno dopo anno la qualità dei processi di selezione migliora e gli investitori internazionali ci riconoscono questa evoluzione positiva.

D. Per altro lo scorso anno da amministratore di Unicredit lei ha partecipato a uno dei test più delicati per la lista del cda. Che ricordo ne ha?

R. Il ricordo è molto positivo. Ho assistito a un meccanismo di selezione davvero molto puntuale ed esigente, con una fase iniziale molto amplia affidata all'attività degli head hunter. Occorre ricordare che la qualità degli head hunter è alta nel nostro paese e cerca di verificare la capacità dei consiglieri di contribuire con le proprie competenze allo sviluppo delle società. Nel caso di Unicredit il board si è ispirato aagli standard internazionali più elevati.

D. La lista del cda nasce come momento di sintesi e di coesione. Questo strumento ha ancora senso a fronte di forti contrapposizioni tra gli azionisti di una società?

R. Non c'è un modello di governance che risolva ex ante le possibili tensioni. Questa è una questione di governo pratico delle società che investe in prima persona il presidente e viene poi sottoposto al voto dell'assemblea. Tanto più che, è bene ricordarlo, il cda non deve rappresentare gli azionisti ma avere la qualità e l'indipendenza necessarie per gestire al meglio la società.

D. Gli investitori istituzionali sono soggetti sempre più attivi nella governance delle società italiane. Come sta procedendo questa dialettica?

R. Questa dialettica fa bene e la vediamo nei grandi mercati aperti come quelli di New York e Londra. Oggi gli investitori richiamano l'attenzione delle società sugli aspetti deboli della governance e sono particolarmente attenti alle remunerazioni e ai parametri Esg. Nell'ambito di questo confronto però è essenziale mantenere una nitida linea di demarcazione tra quello che fanno gli investitori e quello che fanno le società. La strategia spetta agli amministratori e non ai fondi che pure hanno strumenti per condizionare la strategia. Soprattutto è essenziale che, davanti agli investitori, il cda si mostri unito e che non si aprano canali privilegiati con alcuni amministratori. A questo proposito il nuovo Codice di Corporate Governance ha raccomandato alle società di adottare, entro la fine di quest'anno, una politica per promuovere il dialogo della società con gli investitori.

D. Anche alla luce di questa dialettica, ritiene opportuno rafforzare il peso delle minoranze nei board?

R. Come Assonime abbiamo spesso sollevato perplessità sul ruolo degli amministratori di minoranza in un sistema che evolve gradualmente verso la public company. Anche perché spesso i requisiti degli indipendenti non si applicano agli amministratori di minoranza. C'è insomma il rischio di creare nel cda un contropotere che faccia riferimento a questo o quell'azionista. Noi ci opponiamo fermamente a questa tendenza e ribadiamo la nostra convinzione: più una società diventa public, più il suo board ha bisogno di indipendenti.

D. Oggi ce ne sono abbastanza? E soprattutto: sono davvero indipendenti?

R. Oggi in Italia i cda sono più pluralistici: il peso degli amministratori indipendenti nelle società più grandi è pari al 60%, rispetto al 42% di 10 anni fa. Inoltre, gli indipendenti hanno un ruolo cruciale e un peso maggioritario nei comitati endoconsiliari. Abbiamo insomma fatto parecchia strada. Semmai i problemi sorgono quando scendiamo nella dimensione delle società quotate e ci avviciniamo alle situazioni di controllo famigliare. Se la conferma nel cda dipende dall'azionista di controllo, all'avvicinarsi della scadenza c'è un'ombra sull'indipendenza degli amministratori. Anche in questi casi però il quadro complessivo è migliorato grazie alla produzione normativa ma anche allo sforzo di autodisciplina. Il codice di autodisciplina ha dato un contribuito sostanziale alla qualità della governance, andando oltre ai requisiti di legge.

D. Abbiamo parlato di public company. Eppure, come lei ricordava, l'Italia è ancora in gran parte un paese di imprese famigliari. Che futuro vede per la governance di queste realtà?

R. Vedo due strade possibili. Se dopo la crisi pandemica le imprese italiane riusciranno ad aprirsi e ad aumentare il proprio peso specifico sui mercati internazionali, la crescita dimensionale determinerà una naturale evoluzione verso il modello di public company. Al contrario, se questo balzo non avrà luogo, riemergeranno le tendenze a chiudersi e a difendersi e si riproporranno i modelli di governance del passato. Sono sempre le scelte dell'economia reale a determinare l'evoluzione dei modelli di governance.

fch

 

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October 11, 2021 02:58 ET (06:58 GMT)

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