Roger Abravanel, saggista e director emeritus di McKinsey in
Italia, ama andare controcorrente nelle sue analisi. E che ancora
abbia tanta passione nel cercare il senso delle cose lo si vede
dalla luce negli occhi che si accende nel mostrare a MF-Milano
Finanza una serie di tabelle che in modo semplice a suo parere
dimostrano una cosa: la maggior parte degli argomenti utilizzati
per spiegare i problemi dell'economia italiana non hanno gambe.
Dunque anche le soluzioni proposte rischiano di essere
inefficaci.
Domanda. Cominciamo dal primo argomento, ovvero che in 20 anni
l'euro ha penalizzato l'export italiano e in particolare quello
delle pmi.
Risposta. In realtà l'economia è ferma da ben prima
dell'ingresso nell'euro. Durante il miracolo economico degli anni
50 e 60 il pil italiano cresceva più della media europea. La
crescita è proseguita fino a metà anni 90, ma progressivamente non
si è trattato più di una ricchezza sana, bensì drogata dalla spesa
pubblica provocata da riforme fatali, su pensioni, autonomia alle
regioni o Statuto dei lavoratori, che hanno fatto esplodere il
debito da meno del 50% a più del 100% del pil. Nel 1992 i nodi
vennero al pettine e il governo Amato intervenne con il prelievo
forzoso dai conti correnti: la crescita della spesa pubblica allora
si fermò. E con essa l'economia, che da allora ha perso 30 punti di
crescita di pil nei confronti dell'Europa, nonostante i governi
Prodi-D'Alema e Berlusconi avessero fatto ripartire la spesa
pubblica e il debito, sino all'attuale 135% sul pil.
D. Ma le pmi?
R. Dopo il miracolo economico, mentre il mondo del business si
drogava di spesa pubblica, il tessuto delle imprese non ha seguito
il resto delle economie sviluppate, che si trasformavano da
industriali a post-industriali e poi a economie della conoscenza.
La competitività delle imprese italiane si è fermata 50 anni
fa.
D. Ma a frenare tutti è stata anche la pressione fiscale e
burocratica di uno Stato che spende male e investe poco?
R. Questa è un'altra narrazione. Dopo la spending review del
governo Renzi la spesa pubblica italiana è diventata la più bassa
d'Europa, al netto di pensioni e interessi. Le tasse sono alte, ma
non più che in Francia e Germania. I problemi dello Stato sono
altri: burocrazia, giustizia civile inefficiente, scuole e
università senza meritocrazia. D. La vicenda Ilva ha fatto rivivere
la teoria di alcuni partiti ed economisti, secondo cui il Nord
Italia è competitivo e il problema è la zavorra del Sud. R. Altra
narrazione, che in questo caso è un alibi dei politici del nord. In
tutto il mondo occidentale esiste un gap simile a quello italiano
tra le regioni più ricche e quelle più povere. Il rapporto tra il
pil pro capite della Lombardia e quello della Calabria è di 2,2,
mentre quello tra Londra e l'East Wales è di 9. Il problema va
capovolto: in Italia si è fermata la locomotiva del Nord.
D. Si è fermata?
R. Sì. Delle grandi imprese industriali del nord ne sono
sopravvissute poche. Per esempio, Montedison aveva due business
globali eccezionali derivanti dalla capacità innovativa degli
italiani, ossia Farmitalia, leader mondiale dell'oncologia, e
Himont nel polipropilene. Tutto perduto per colpa del disastro
Ferruzzi-Montedison. E così a seguire c'è stata una vera ecatombe.
Zanussi, Merloni, Falck , Italcementi e molte altre non sono più
aziende italiane.
D. Secondo uno studio di Mediobanca , la forza economica del
Paese è la manifattura, dato che la produttività dei servizi è
addirittura scesa. Sulle colonne di Milano Finanza lei ha più volte
ribadito che la sfida è recuperare produttività nei servizi.
Partita persa?
R. Il manufatturiero è un punto di forza, ma come reagiremmo nel
leggere che il Bangladesh decanta la forza della propria
agricoltura? Le economie dei Paesi sviluppati sono passate nel
secolo scorso da manifattura ai servizi: 50 anni fa la più grande
azienda del mondo era General Motors e oggi è WalMart, un
supermercato. Il manufatturiero italiano rappresenta meno del 18 %
del pil ed è in diminuzione, il resto sono servizi: professioni,
turismo, banche e assicurazioni, comunicazioni, trasporti e
commercio, utility, software. Che servono le imprese e i
consumatori. E la rivoluzione digitale accelera questa transizione:
averli a bassa produttività è un suicidio ed è una delle cause
principali del disastro economico attuale.
D. Lei è un acerrimo nemico della narrazione del «piccolo è
bello». Quindi non è dalle pmi che si deve partire per il
rilancio?
R. A dire che «piccolo è bello» sono rimasti solo i politici a
caccia dei voti dei milioni di italiani che lavorano nelle piccole
aziende. In questo non sono diversi dai colleghi americani ,
francesi e inglesi che hanno ricominciato a tessere le lodi delle
piccole aziende: ma in quei Paesi esistono colossi che possono
essere messi sotto accusa per mille ragioni, tra cui il fatto che
eludono le tasse.
D. Be', non è un'accusa da poco.
R. Dire che Microsoft , giusto per fare un nome, vale in borsa
mille miliardi di dollari solo perché non paga le tasse mi sembra
esagerato. La differenza è che in Italia le piccole continuano a
essere protagoniste dell'economia, mentre da loro sono le
grandissime che diventano sempre più importanti e da noi sono
praticamente assenti. Nella classifica delle Fortune 500 sulle
maggiori imprese per fatturato e redditività le italiane sono meno
di spagnole, svizzere, brasiliane, australiane, coreane,
olandesi...
D. Con Fca -Peugeot è stata sancita la de-italianizzazione della
Fiat . Probabilmente è una buona operazione per azienda e
azionisti, ma lo è per il Paese?
R. Le grandissime aziende sono i motori dell'economia di un
Paese. Investono in ricerca e sviluppo più delle piccole. Creano la
maggioranza dei posti di lavoro. Stimolano la crescita dei servizi
innovativi. Pagano molte tasse. Hanno un ruolo sociale molto più
forte delle piccole. Il problema dell'economia italiana non è solo
la disoccupazione, che è in miglioramento, ma le retribuzioni, che
sono il fanalino di coda in Europa e in peggioramento. E l'Italia è
anche il fanalino di coda come numero di laureati, perché mancano
le grandissime aziende che li assumono. Io credo nei campioni
nazionali globali, non in quelli europei. I francesi sono
orgogliosi di Lvmh e Airbus , gli spagnoli di Zara, gli irlandesi
di RyanAir, gli indiani di Mittal, gli svizzeri di Nestlé, i cinesi
di Alibaba...
D. In Italia manca il terreno fertile perché si sviluppi una
grande azienda?
R. Sì, a causa di un misto di familismo e salotti buoni, o di
inciuci, come li chiama qualcuno, tra molti imprenditori e banche,
associazioni, media e politica. Il sistema Italia non favorisce
aziende di taglia XXL pronte a competere sui mercati globali, ma le
protegge e le incoraggia a restare in Italia, aggirando la
competizione.
D. Quindi piccolo è brutto, ma per lei è anche bruttissimo
soprattutto nel settore dei servizi. Perché?
R. Sì, perché la mancanza di scala è la causa principale della
bassa produttività nei servizi. Pere esempio, in Italia abbiamo
solo il 16% degli hotel compresi in catene alberghiere, contro il
56% della Spagna, il 50% di Francia e Regno Unito e il 40% della
Germania. I piccoli alberghi a gestione familiare sono strangolati
dai colossi. Accor ha 4.200 hotel, NH e Melia 400, le italiane Una
e Star rispettivamente 38 e 29. I colossi hanno una produttività
immensamente maggiore: non pagano le commissioni a Booking.com,
hanno ospiti fedeli e globali e garanzia di qualità globale. Molte
piccole imprese sono sopravvissute non rispettando le regole, per
esempio con il nero, impedendo a quelle che vorrebbero crescere di
farlo. La concorrenza prevede che chi è forte vinca sul più debole.
Da noi non succede. Prendete l'esempio dei lavoratori autonomi. In
Italia autonomi e partite Iva sono 5 milioni, pari a 22% del totale
degli occupati, contro l'8% della Germania e il 12% della Francia.
Avere più self employed è sintomo di bassa produttività e povertà.
In Usa sono il 7% del totale, in America Latina il 22 % e in Africa
il 36 %. E così in Italia ci sono 250 mila avvocati contro i 60
mila in Francia e 150 mila in Spagna, ci sono 130 mila architetti
contro i 43mila del Regno Unito e i 30 mila della Francia. Molti
self employed guadagnano pochissimo e sopravvivono spesso evadendo
le tasse, mentre i loro colleghi europei sono meno, lavorano in
grandi organizzazioni e studi professionali in competizione e i
migliori guadagnano molto di più. E pagano le tasse.
D. Per dirla con Bartali, l'è tutto da rifare. Ma come?
R. Bisogna cambiare il paradigma economico e quello dei valori
della società. Il modello dei distretti industriali dispersi sul
territorio deve essere superato da grandi città innovative e di
servizio come Milano, dove di fabbriche non se ne vedono ma ci sono
multinazionali innovative, qualche grande impresa nazionale, le
migliori università d'Italia e si lavora nei settori della
knowledge economy, il digitale, il life science, i servizi
avanzati, la finanza innovativa, attirando anche turisti d'affari.
La direzione è quella giusta.
D. E sui valori?
R. Gli italiani non devono accettare la concorrenza solo sui
campi di calcio. Per questo bisogna costruire un più forte capitale
sociale, che è quello che garantisce che la competizione sia leale.
Da noi non avviene da 50 anni. E bisogna accettare una volta per
tutte che profitti e valori morali non sono in alternativa. E anche
in questo le grandissime imprese possono aiutare molto.
red
(END) Dow Jones Newswires
December 09, 2019 02:37 ET (07:37 GMT)
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